Teatro Goldoni di Livorno, 16 gennaio 1921, l’unica scissione riuscita
Finora, non sembra che Matteo Renzi abbia arrecato danni al Pd sannita. Dopo l’uscita, dal circolo Pd di Montesarchio per aderire a Italia Viva, di Nunzio D’Ambrosio, Teresa Cecere, Pierpaolo De Simini, l’assessore comunale Bepy Izzo e la presidente del circolo, Monica Castaldo, a Benevento ha seguito l’ex premier soltanto Luigi Ionico.
Probabilmente, chi ha lasciato il Pd a Montesarchio, costituendo il Comitato di Azione Civile, andava alla ricerca di visibilità (meglio essere [Mastella docet] testa di alice che coda di pescecane), per dire la sua, in nome di qualcosa. Ha meravigliato chi scrive, però, la scelta di Gigi Ionico, l’ex cardiologo del “Rummo”.
Infatti, nato politicamente in formazioni alla sinistra dei diessini (i post comunisti), Ionico aderì poi ad Alleanza Riformista, l’associazione culturale fondata da Umberto Del Basso De Caro alla fine della sua prima esperienza di deputato conclusasi nel 1994. Poi, nella election day del 2001, candidato nella lista “socialisti per Benevento”, in cui si era fusa in quel momento Alleanza Riformista, venne eletto, insieme all’odontoiatra Nicola De Luca, aderente a “Socialisti Italiani”, la formazione politica fondata da Enrico Boselli in seguito alla diaspora socialista, mentre Del Basso De Caro, candidato sindaco cui era collegata anche la lista “Democratici per Benevento”, andò a coprire il seggio assegnato a quest’altra lista. Poi, Ionico, insieme a Del Basso De Caro e ad Alleanza Riformista, ha aderito a La Margherita, la formazione in cui si era sciolto il Ppi o parte di esso. Nella lista de La Margherita, collegata al candidato sindaco Fausto Pepe, allora mastelliano, che vincerà le elezioni al primo turno, venne eletto, insieme ad altri quattro candidati, nel consesso cittadino, divenendo assessore allo sport. Nel 2001, candidato nel Pd, in cui si erano sciolti La Margherita e i Ds, non venne rieletto, e nel 2016 non si è candidato.
La festa itinerante de L’Unità
Quando già non era più una personalità di spicco nel Pd, Gigi Ionico, intervenendo in un convegno tenuto dal Pd nell’hotel Lemi di Torrecuso in apertura della campagna elettorale delle politiche del 2018, evidentemente in polemica con il Partito e con Renzi che ne era il segretario, disse, tra l’altro: “Nel 2020, la Svezia abolirà il contante, quindi la tangente, il pizzo si dovranno pagare con il bancomat, in quel paese (dove la corruzione e l’evasione fiscale è molto minore rispetto all’Italia – ndr). Renzi invece ha innalzato i pagamenti in contanti a 3.000 euro”. La meraviglia del suo schieramento con il partito di Renzi sta appunto in questo passaggio del suo discorso.
Dopo che da qualche giorno Renzi aveva annunciato l’uscita dal Pd, e prima che si manifestassero le suddette defezioni, noi abbiamo partecipato a cinque dei sei incontri della festa itinerante de L’Unità, per informarci, alla luce di quanto era accaduto, dell’aria che tirava in casa del Pd sannita, anche se la festa era stata programmata prima della scissione. Invece, si è parlato dei problemi del territorio, in rapporto alle scelte della Regione, all’inversione di rotta che avrebbe dovuto determinare, nel medio e lungo termine, il nuovo governo giallorosso. Solo nell’incontro conclusivo, tenutosi la sera del 22 settembre nella sala conferenze di Palazzo Paolo V con l’intervento di Del Basso De Caro e di Antonio Bassolino, si è fatto cenno alla scissione per iniziativa del già governatore della Campania.
Interessante, però, è stato anche l’incontro tenutosi a Frasso Telesino sull’autonomia regionale differenziata, in cui Marco Plutino, professore di Diritto Costituzionale presso l’Università di Cassino, ha posto in evidenza i danni che verrebbero arrecati alle popolazioni dell’Italia meridionale per effetto dell’autonomia differenziata richiesta dalle Regioni del Nord, governate dalla Lega, sulla base di come è stato modificato l’art. 117 della Costituzione, nell’ambito della più ampia modifica del Titolo V, varata, ahinoi!, con legge costituzionale n. 3/2001, da un governo di centro sinistra, sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, e resa vigente, in virtù del parere favorevole espresso dai cittadini, l’8 novembre 2001 (una nuova modifica del Titolo V era prevista, in rapporto ai contenziosi determinati dalla legge n. 3/2001, dalla riforma costituzionale che, voluta da Renzi, è stata bocciata dagli italiani nel referendum del 4 dicembre 2016).
Il prof. Plutino, in quella occasione, ha giudicato bene l’iniziativa assunta dal Presidente della Campania, Vincenzo De Luca, nel richiedere, anche lui, l’autonomia differenziata, essendo il governatore della seconda regione più popolosa d’Italia. Finora, la sua azione da guastafeste ha frenato il rampantismo dei governatori leghisti.
La formazione del governo e la scissione di Renzi
Il loro capo, Matteo Salvini, ritenuto un uomo politico molto navigato, nell’aprire la crisi di governo l’8 agosto scorso, aveva pensato che sarebbero state sciolte le Camere, per poi andare a elezioni anticipate, in cui la Lega, capitalizzato il 38% attribuito allora dai sondaggi, avrebbe consentito a lui di avere, con il supporto di FdI e di ciò che era rimasto di Forza Italia, i pieni poteri richiesti agli italiani sulle spiagge, quando il sole gli aveva dato alla testa.
Invece, “ha aperto un’autostrada al Pd”, ha affermato Del Basso De Caro nel predetto incontro di chiusura della festa de L’Unità, consentendo ai dem di ritornare al governo del Paese, dopo aver stipulato un’alleanza con i 5 Stelle, il Movimento che, al governo con Salvini nel precedenti 14 mesi, si era ridotto ad un livello di comprimario.
Certo, anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti voleva le elezioni, non sapendo dove sarebbe arrivato il “suo” partito partendo dal 22-23%. Zingaretti aveva anche rassicurato Renzi circa la riproposizione di tutti i parlamentari uscenti (fino ad un certo punto, secondo noi), poiché, nelle elezioni del 2018, l’ex premier, allora segretario del Partito, candidando i “suoi”, in posizione di eleggibilità, e riservando alla minoranza di Andrea Orlando appena uno spazio del 20%, aveva conseguito un massiccio controllo dei gruppi parlamentari.
Nella corsa verso le elezioni, come ha ricordato pure Del Basso De Caro, Zingaretti ha desistito in seguito alle pressioni esercitate, tra gli altri, da Franceschini, Veltroni, Prodi, nello stipulare un’alleanza con i 5 Stelle. E, poiché, a tal fine, Renzi si era già incontrato con Grillo, il fondatore del Movimento, Zingaretti ha avuto una ragione in più per desistere: quella di conservare l’unità del Partito, rispetto al pericolo di scissione da parte di Renzi.
Ma, dopo il giuramento dei componenti il nuovo governo il 5 settembre nelle mani del Presidente della Repubblica, e dopo la nomina dei sottosegretari, la sera del 16 settembre, Renzi, ottenuta una fetta di suoi rappresentanti nella compagine governativa, annuncia, attraverso Porta a Porta, l’uscita dal Pd, dopo aver reso una intervista a La Repubblica che sarà pubblicata l’indomani. Ha portato, però, con sé, 25 deputati e 15 senatori, numeri questi che segnano il ribaltamento degli equilibri scaturiti dalle elezioni del 4 marzo 2018. Staremo a vedere, poi, quali altre adesioni vi saranno alla prossima “Leopolda”.
I renziani che non hanno seguito l’avventura di Renzi, costituiscono la numerosa componente riformista del Partito, come se Zingaretti, Orlando, Emiliano e tutti i non renziani fossero dei massimalisti. Da quando è stata abiurata la via italiana al socialismo, vista di buon grado anche da Garibaldi, (“io saluto nel socialismo il sole dell’avvenire”) ancor prima della fondazione del Partito Socialista, tutta la sinistra è riformista. Non deve, quindi, far pensare alla ripresa di quella via se alla festa nazionale de L’Unità abbiano cantato Bandiera Rossa, un inno non comunista perché scritto, come pure l’Inno dei Lavoratori, da Filippo Turati, un socialista riformista, anche se i riformisti di quei tempi, più che persone disposte a derogare dai principi di massima per venire a patti, sono stati considerati riformatori. Che Ivan Scalfarotti si sia scandalizzato al canto di quell’inno da parte di romantici del socialismo, significa che il sottosegretario agli Esteri ha fatto bene a seguire Renzi, che, con la scissione, ha posto in essere una operazione di Palazzo, per avere la leadership di una formazione politica, dopo che aveva perduto il controllo del Pd; una operazione, insomma. che sa tanto di tatticismo.
Ma il tatticismo può pagare nell’immediato, non paga però nel lungo termine. Nel lungo termine paga il rapporto con la gente, che i partiti della sinistra hanno smarrito, ma che il Pd vuole riprendere. Staremo a vedere come si confronterà Renzi. Bassolino non lo ha trattato male, a parte il poco rispetto che il capo di Italia Viva ha riservato a Zingaretti, e a parte le cose più impolitiche che l’ex governatore della Campania ha dovuto sentire, oltre ai popcorn, dall’ex premier: “non vedo l’ora di vederli insieme”, aveva detto, rivolto all’alleanza di Salvini con Di Maio, dopo aver impedito al Pd di andare a vedere, dopo le elezioni, se c’erano dei punti di contatto con i 5 Stelle. Secondo Bassolino, l’alleanza con il M5S andava stipulata un anno fa, e il Pd, che deve avere l’ambizione di recuperare l’astensionismo con la sua azione di governo, andava costituito dieci anni prima. Evidentemente, sarebbe dovuta avvenire, secondo Bassolino, quando è nato l’Ulivo, la coalizione che metteva insieme le forze di centro sinistra, ognuna però con una propria identità.
Ma il Pd, nato dalla fusione di culture politiche diverse tra di loro (quella laica, con tutte le sue sfumature, e quella cattolica), non sempre ha avuto una omogenea identità politica, come i fatti sono incaricati di dimostrare, soprattutto dopo che Renzi ne ha assunto la guida, una guida consolidata dopo le elezioni europee del 2014, che diedero al Partito il 41% dei voti, un successo oltre ogni previsione.
Gli ex diessini, quelli che non si erano omologati al renzismo, hanno resistito a lungo rispetto al dominio renziano, sono rimasti nel partito anche dopo che dieci di loro, Bersani compreso, sono stati sostituiti dalla commissione affari costituzionali della Camera, perché non subisse modifiche l’Italicum, il progetto di legge elettorale voluto da Renzi ma che sarà giudicato incostituzionale, nella parte essenziale, dalla Consulta, una volta divenuto legge.
Quando, poi, il 19 febbraio del 2017, Matteo Renzi si dimette da segretario del partito, dopo che si era dimesso da premier in seguito alla sconfitta subita nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, i predetti ex diessini vengono presi di sorpresa, anche perché, per eleggere il nuovo segretario che sarà di nuovo Renzi, vengono subito indette le primarie per il successivo 30 aprile, anticipando di un anno la data del congresso. La sinistra del Partito, colta impreparata, chiede tempo. Ma rispetto alla chiusura opposta da Renzi, anche se più di un renziano era disposto a fare delle aperture, Bersani, D’Alema, Speranza, il presidente del Senato, Grasso, il presidente della Regione Toscana, Rossi, con un certo seguito, sono costretti a uscire dal Partito, mentre Orlando, Emiliano ed altri restano nel Partito, continuando a rivestire il ruolo di opposizione.
Come si può capire, l’uscita del gruppo facente capo a Bersani è stata una cacciata, mentre quella di Renzi, che ha voluto togliere il disturbo, come lui stesso ha dichiarato, è stata una uscita volontaria. Ma la scissione, appena è stata annunciata, sé è rivelata un mezzo fallimento, poiché Renzi è stato seguito soltanto da un terzo (grosso modo) dei “suoi” parlamentari. Nei primi sondaggi, Italia Viva si è attestata sul 4,5%, mentre il Pd ha subito appena il calo di un paio di punti.
Storia delle scissioni
La storia ci insegna che tutte le scissioni non sono riuscite nei loro intenti, quando non si sono rivelate un totale fallimento. Renzi, quindi, non sarà una eccezione alla regola.
Il Partito socialista, nel secolo scorso, ha subito tre grosse scissioni. Ma solo quella consumata da Antonio Gramsci e da Amedeo Bordiga, nel corso del XVII tenuto nel teatro Goldoni di Livorno dal 15 al 21 gennaio del 1921, ha avuto un seguito, poiché il Partito Comunista d’Italia da loro fondato si è affermato sempre di più, fino a quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, Achille Occhetto non ne ha cambiato il nome.
Dopo due giorni di acceso dibattito in quel congresso, Gramsci e Bordiga, usciti dal teatro Goldoni, si riunirono con i loro seguaci nel teatro S.Marco, dove fondarono il loro partito, al fine di adeguarsi ai 21 punti della Terza Internazionale, il Comintern, l’internazionale comunista costituita dopo la Rivoluzione d’Ottobre, una rivoluzione che Bordiga voleva che avvenisse anche in Italia per rovesciare lo Stato borghese. Figuriamoci se, nel caso fosse stato un nostro contemporaneo, poteva andare a vedere se c’erano dei punti di contatto con i 5 Stelle, come ipotizzato invece da Bassolino in quell’incontro.
Prima ancora che venisse consumata la scissione, Lenin aveva chiesto al Partito Socialista di espellere i riformisti Filippo Turati, Claudio Treves e Camillo Prampolini. L’operazione, però, non poté aver luogo poiché Gramsci e Bordiga, rappresentavano una minoranza di 58.783 iscritti, mentre costituivano la maggioranza gli 89.000 massimalisti unitari, rappresentati da Giacinto Menotti Serrati, insieme ai 14.695 riformisti, rappresentati da Filippo Turati.
La superiorità numerica dei socialisti, rispetti ai comunisti, si manifestò , dopo il ventennio, anche nelle prime elezioni del 2 giugno 1946, quando insieme al referendum istituzionale, tra Repubblica e Monarchia, si votò anche per eleggere l’Assemblea Costituente. Infatti il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (questo il nome che assunse il Partito Socialista) ottenne 4.758.129 voti, pari al 20,68%, e 115 deputati, in una assemblea che ne contava 556, mentre il PCI ottenne 4.356.686 voti, pari al 18,93%, e 104 deputati.
Dopo la costituzione di un governo con la DC, il partito che aveva ottenuto 8.101.000 voti, pari al 35,21%, e 207 deputati, gli americani, prima ancora di dire a De Gasperi di cacciare dal governo i socialisti e i comunisti, si posero il problema di come indebolire il PSIUP, ritenuto evidentemente meno refrattario del PCI.
Così, nel corso del XXV congresso, che si tenne presso l’Università della Sapienza dal 9 al 13 gennaio dei 1947, l’11 gennaio Giuseppe Saragat, quando le posizioni si erano rese inconciliabili anche perché egli non aveva condiviso il patto di unità d’azione stretto tra socialisti e comunisti il 25 ottobre 1946, si trasferì presso Palazzo Barberini, con al seguito 50 parlamentari, dove fondò il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, un partito socialdemocratico (infatti assumerà poi il nome di PSDI) che si richiamerà ai valori delle socialdemocrazie europee.
Alle elezioni del 18 aprile 1948, i socialisti, scompaginati, diedero vita, insieme ai comunisti, al Fronte Democratico Popolare, ottenendo 42 deputati tra i 183 assegnati Fronte, mentre i socialdemocratici ne conquistarono 33, con il 7,7% dei voti, il numero massimo mai conseguito dal loro partito. Nelle successive elezioni del 1953, il Partito Socialista, presentatosi con il proprio simbolo, ottenne il 12,7% dei voti e 75 deputati, in un’assemblea che ne conta 590; i socialdemocratici, che pagarono lo scotto della loro collaborazione con la Dc, insieme a PLI e PRI, scesero al 4,5%, rimediando poco più di 20 deputati; la DC, sapendo di non poter consolidare la maggioranza assoluta conseguita nel 1948, introdusse il premio di maggioranza ( meglio conosciuto come legge-truffa), che prevedeva l’attribuzione del 65% dei parlamentari al blocco di centro costituito tra essa e gli altri tre citati partitini. Bocciata dagli italiani, la legge truffa, che impallidisce rispetto ai premi di maggioranza istituiti nella Seconda Repubblica, viene poi abrogata, su proposta di Pietro Nenni, nel 1954, da persone più sensate.
Quando, poi, sulla spinta di Pietro Nenni, che con la rottura del patto di unità d’azione, aveva preso le distanze dal Partito Comunista, si apre la possibilità di una collaborazione governativa dei socialisti con la Dc, che farà a meno dei liberali, si profila un’altra scissione per il PSI. Al XXXV congresso, tenutosi all’Eur dal 25 al 29 ottobre del 1963, la sinistra socialista, costretta ad accettare la partecipazione del partito al governo, fissa dei paletti i tre punti, attraverso l’intervento del suo capo, Tullio Vecchietti: “non piegheremo la testa se l’accordo dovesse prevedere la politica dei redditi negli aumenti salariali, l’armamento multilaterale della Germania come minaccia per l’Unione Sovietica, e il far gravare sui lavoratori il costo della congiuntura economica”, nella quale il paese si era venuto a trovare appena tre anni dopo il boom economico.
Ovviamente, Nenni, intenzionato a non avere intralcio nella costituzione, il 6 dicembre 1963, del primo governo Moro-Nenni, e nel portare avanti in processo di unificazione con il PSDI, che avvenne nel 1966, non fece nessuna apertura, esattamente come ha fatto Renzi con Bersani e compagni, per conservare la corrente di sinistra al Partito. Anzi, disse: “la sinistra sta tagliando il ramo secco su cui poggia”. Addirittura, il segretario della federazione romana del PSI, Roberto Palleschi, espulse dal partito i deputati eletti in provincia di Roma, per aver votato, insieme al resto dei deputati della sinistra, contro un provvedimento del governo di centro sinistra.
Cosi, il 6 gennaio del 1964, sempre nel Palazzo dei Congressi dell’Eur, fu consumata la scissione, cui aderirono 25 deputati sugli 87 conquistati dal PSI nelle politiche del 1963, quando l’assemblea di Montecitorio, in rapporto all’aumento della popolazione, come previsto dalla Costituzione, aveva raggiunto il numero degli attuali 630 deputati. Il nuovo partito si chiamò, come nel 1946, PSIUP, alla cui costituzione, in provincia di Benevento, chi scrive prese parte.
Nelle elezioni del 1968, che segnarono la sconfitta del PSI-PSDI unificati, in quanto l’unificazione non dimostrò che 2 più 2 fa 4, il PSIUP confermò il numero dei suoi 25 deputati. Ma, dopo le elezioni del 1972, si sciolse, perché, nonostante avesse conquistato 600mila voti, in una platea elettorale in cui non votano ancora i diciottenni, non elesse nessun deputato, in quanto la legge elettorale (proporzionale) prevedeva che potessero partecipare all’attribuzione dei seggi nel collegio unico nazionale solo i partiti che avevano conquistato almeno un seggio in sede circoscrizionale. A margine di quelle elezioni, si disse che il PCI aveva fatto pagare ai pisiuppini il fatto di essere stato trascinato, nel dicembre del 1971, nell’ostruzionismo al decretone, sicché gli avrebbe fatto concorrenza in campagna elettorale, anche se gli aveva fatto conquistare 12 senatori, avendo fatto con loro causa comune per la elezione del Senato. Di qui, vi fu una adesione massiccia di ex pisiuppini al PCI, mentre, una piccola parte ritornò nella casa madre, nella quale chi scrive aveva trovato rifugio già nel 1967, senza abiurare le sue scelte.
In seguito alla celebrazione del XXXVIII congresso tenuto all’Eur dal 23 al 28 ottobre del 1968, i socialdemocratici, divenuti soccombenti verso i socialisti, maggiori di numero, nella guida degli organismi di partito, che nella fase costituente avevano gestito a mezzadria, il 5 luglio dell’anno successivo decidono di separarsi dai socialisti, ricostituendo il loro partito, che, nelle elezioni del 1972, venne ricondotto al livello preesistente (una percentuale intorno al 5%, conservata fino all’avvento della Seconda Repubblica), ben lontano da quello conseguito con la scissione di Palazzo Barberini, quando Saragat portò con sé il 40% del Partito Socialista.
Nella seconda Repubblica, poi, si sono avute una serie di grosse e piccole scissioni, dissoltesi nell’arco di una legislatura. La più consistente, quella di Gianfranco Fini dal Pdl, che, con 34 deputati e una diecina di senatori non riuscì a far cadere, alla Camera, il governo Berlusconi, poiché il magnate di Arcore, oltre ad essersi annessi gli ex dipietristi Scilipoti e Razzi, era riuscito, nel corso della votazione sulla sfiducia, il 14 dicembre 2010, a…conquistare, con una ottima contropartita, due deputate finiane. Ma nelle elezioni del 24 febbraio 2013 scompare il partito di Fini, e i parlamentari che si erano defilati da Fini (Pasquale Viespoli compreso) ritornando nell’alveo berlusconiano, non saranno ricandidati.
Poi, nell’ottobre del 2013, Angelino Alfano, nominato segretario del Pdl da Berlusconi, avvertendo un senso di responsabilità verso il paese, scinde, insieme ad altri 28 deputati e a 30 senatori, le proprie responsabilità da quelle di Berlusconi medesimo, che, a sei mesi di distanza dal voto del 24 febbraio, aveva tentato di far cadere il governo Letta, una manovra, questa, finalizzata ad andare a nuove elezioni per impedire la sua decadenza da senatore, a norma della legge Severino, per effetto di una condanna passata in giudicato, avendo lui, quando era presidente del Consiglio (caso unico al mondo) frodato il fisco in favore delle sue aziende. Alfano, ministro degli Interni, rimane a sostenere, con gli altri quattro ministri (De Girolamo compresa), e il predetto seguito di deputati e senatori, il governo Letta, e fonda, il 15 novembre di quell’anno, il Nuovo CentroDestra, mentre Berlusconi aveva rifondato Forza Italia il precedente 25 ottobre. Alfano, poi, passa a sostenere il successivo governo Renzi, con lo stesso bagaglio di deputati, di senatori e di ministri, ma perde pezzi lungo la strada: prima De Girolamo, poi Quagliariello. Nel 2014, Raffaele Fitto, forte delle preferenze ottenute nella elezione a europarlamentare, venuto in conflitto con Berlusconi, esce da Forza Italia con pochi fedelissimi. Nel luglio 2015, è poi la volta di Denis Verdini a lasciare Forza Italia, per andare a sostenere, con una decina di senatori, il governo Renzi nell’Aula di Palazzo Madama, dove la maggioranza governativa, non ampia come quella della Camera, potrebbe scricchiolare con il venir meno, prima ancora della scissione, dei voti della sinistra bersaniana. Infatti, i verdiniani si rivelarono determinanti nel voto di fiducia sull’Italicum e sulla legge di modifica della Costituzione , e anche dopo, nel sostenere, in un certo modo, il governo Gentiloni. Ma Verdini e sua formazione politica (Ala) non si presenterà alle politiche del 2018.
Angelino Alfano, passato a sostenere il governo Gentiloni, lui come ministro degli Esteri e la Lorenzin come ministra della Salute, di fronte all’assottigliarsi del consenso verso la sua formazione politica, nonostante ne avesse cambiato nome, cercando, e realizzando in parte, la fusione con l’UDC, pochi mesi prima delle elezioni politiche del 2018, annuncia la sua uscita dalla vita politica. La Lorenzin ne crea un’altra, ma sapendo che la sua formazione politica non avrebbe superato la soglia di sbarramento del Rosatellum (l’ultima legge elettorale, quella vigente), fissata al 3%, aveva chiesto e ottenuto la candidatura nelle liste del Pd, in quanto i voti conquistati dalla sua formazione, in caso di mancato superamento del 3%, si sarebbero riversati nella formazione maggiore (quella del Pd) a garanzia della copertura elettorale del seggio suo e di qualche altro.
Nella coalizione di centro sinistra, stessa operazione pongono in essere i radicali, che con il 2,9% sfioreranno lo sbarramento, e Insieme per l’Europa, che otterrà lo 0,5%, la stessa percentuale conseguita dalla formazione di Beatrice Lorenzin, che ora è passata ufficialmente nel Pd. Nel versante di centro destra, Raffaele Fitto, Maurizio Lupi e altri, cercano lo stesso tipo di rifugio in Forza Italia.
Liberi e Uguali, la formazione costituita dalla sinistra del Pd, supera lo sbarramento, ma il 3,5%, rimediato il 4 marzo 2018, assai lontano dal 6-7% rilevato dai sondaggi subito dopo la scissione, si è ridotto all’1,5% in questi giorni.
Un monito, questo articolo, per tutti gli scissionisti.
Giuseppe Di Gioia
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