C’era una volta: storia di orecchie, bocche, chiappe
C’era una volta.
Tutte le favole cominciano così.
Anche quelle più nere.
C’era una volta, perciò, a Benevento, un palazzo.
E, all’interno di quel palazzo, delle stanze.
E, dentro quelle stanze, delle sedie.
Era su quelle sedie che poggiavano tutto il giorno le chiappe di chi aveva il dovere, e il diritto, di occuparsi della città e di tutti i suoi abitanti.
Di storie, quelle sedie, ne conoscono parecchie.
Tutte iniziano con “c’era una volta”.
Non tutte, non molte, abbastanza poche in verità, finiscono con il classico “e vissero felici e contenti”.
Non poche, molte, quasi tutte, in verità, sono storie di chiappe che avevano orecchie.
Orecchie per ascoltare chi non stava seduto lì, su quelle sedie, dentro quelle stanze, all’interno di quel palazzo.
Orecchie per ascoltare quelle chiappe che salivano le scale di quel palazzo per parlare con quelle chiappe che avevano orecchie.
Ascoltare era, anzi, l’attività principale di quelle orecchie.
Perché sapevano bene, quelle orecchie, che il solo modo per assicurare a quelle chiappe cui erano attaccate di poter sedere a lungo su quelle sedie, dentro quelle stanze, all’interno di quel palazzo, era ascoltare.
Ascoltare e capire.
Capire e rispondere.
O almeno provarci.
O, alla peggio, fingere.
Tutte, in fondo, quelle orecchie attaccate alle chiappe di chi sedeva su quelle sedie, dentro quelle stanze, all’interno di quel palazzo e quelle bocche attaccate alle chiappe di chi saliva le scale di quel palazzo per entrare dentro quelle stanze, avevano una cosa in comune: tutte erano beneventane.
Tutte quelle chiappe, quelle orecchie, quelle bocche, quelle di chi era dentro e quelle di chi era fuori dal palazzo erano nate lì, avevano imparato a parlare lì, erano andate a scuola lì, avevano giocato lì.
Si erano innamorate lì.
Di altre orecchie, altre bocche, altre chiappe.
Vivevano lì.
Lì avevano concepito e cresciuto altre piccole orecchie, piccole bocche e piccole chiappe.
E lì, un giorno, il più lontano possibile, dopo aver seduto su quelle sedie, in quelle stanze, in quel palazzo o dopo averne salito e sceso le scale sarebbero state seppellite.
Tutte – quelle orecchie che ascoltavano, quelle bocche che parlavano, quelle chiappe alle quali bocche e orecchie erano attaccate –, tutte insieme formavano una comunità.
Tutte insieme erano una comunità.
Il palazzo, le stanze, le sedie, le scale non erano ciò che divideva quelle chiappe.
Le scale, le sedie, le stanze, Il palazzo erano precisamente ciò che le univa.
I problemi appartenevano a tutti.
A chi li aveva e aveva il diritto di lamentarsene.
E a chi li ascoltava aveva il dovere, e il diritto, di risolverli.
O almeno di provarci.
O, alla peggio, fingere.
C’era una volta, a Benevento, un palazzo.
E, all’interno di quel palazzo, delle stanze.
E, all’interno di quelle stanze, delle sedie.
Era su quelle sedie che poggiavano tutto il giorno le chiappe di chi aveva il dovere, e il diritto, di occuparsi della città e di tutti i suoi abitanti.
Oggi su quelle sedie ci sono altre chiappe.
E, su quelle sedie, all’interno di quelle stanze, dentro quel palazzo, l’unica cosa che risuona sono solo grandi, pirotecniche, rumorose scoreggie.
Massimo Iazzetti
Ndr. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente non casuale.
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