80º Anniversario dei bombardamenti degli alleati sulla città di Benevento: Rievocazione dell’arcivescovo mons. Felice Accrocca
Una bellezza violata può colpire gli ammiratori ancor più di prima, ciò che ne rimane può suscitare favolosi interrogativi su quello che doveva essere stata nel pieno del suo vigore. È quanto provo ogni volta che, nell’ipogeo della cattedrale, in una delle sale del museo diocesano di Benevento, mi fermo davanti ai resti dell’opera di Nicola da Monteforte, il quale nel 1318 consegnò amboni e candelabro per il cero pasquale a futura memoria della sua fede e della sua arte: uno scultore, Nicola, che regge il confronto con i grandi della sua epoca, forse – e non credo di esagerare – con lo stesso Arnolfo di Cambio.
Tuttavia, quella bellezza fu sventrata, squartata e fatta a pezzi come un animale, dalle bombe che nel 1943 rasero al suolo la cattedrale di S. Maria Assunta e buona parte della città, causando migliaia di morti. Ottant’anni sono trascorsi da quegli eventi tragici, ma ancor più tragico è il fatto che tale ricorrenza venga a cadere quando, nella medesima Europa che fu sconvolta da un così tremendo conflitto, bombe infinitamente più potenti cadono ancora su cittadini inermi i quali, oggi come allora, pagano il prezzo più alto per la follia e il guadagno di pochi.
Traggo notizie di quei giorni beneventani dalla Cronaca manoscritta redatta dai Missionari del Preziosissimo Sangue: ogni casa religiosa tiene infatti abitualmente (dovrebbe, almeno) una cronaca con i fatti salienti della vita interna della comunità e del territorio in cui vive. Le prime avvisaglie risalgono al 20 agosto: alle 13,30 suonò l’allarme, eppure, «non pensando ai bombardamenti ritenuti inutili su Benevento», la popolazione rimase in casa; alle 13,45 una formazione di circa ottanta aerei passò sulla città: alcuni di essi si distaccarono lanciando sulla stazione ferroviaria «molte bombe incendiarie»; due «treni viaggiatori gremiti di gente» furono centrati in pieno: «i morti – annota il cronista – non si contano, i feriti superano i trecento […]. Le vittime nelle sale della stazione, specialmente in quella di terza classe, sono innumerevoli». Una settimana dopo, il 27 agosto, si ebbe il «secondo bombardamento della ferrovia», fortunatamente con pochi morti e feriti perché nel frattempo la popolazione si era «riversata nelle campagne».
Il 7 settembre, alle 20,45, il terzo bombardamento: pure per quel giorno il cronista registra «qualche vittima», «danni gravissimi» inflitti alla chiesa dei Missionari, sul Corso, mentre «tutte le altre chiese di Benevento subiscono ove più ove meno gravi danni». Il 9 settembre «avvengono tafferugli per la cacciata dei tedeschi. Questi si appropriano di tutti gli automezzi. Alcuni, raggiunti, vengono disarmati. Altri fanno fuoco con la mitraglia. Un soldato di S. Giorgio [del Sannio] viene ucciso nel vicolo di S. Caterina. Gran panico nel popolo».
L’11-12 settembre furono i giorni più tragici: l’11 «i tedeschi disarmano i soldati e gli ufficiali italiani» e «occupano gli uffici pubblici, compresa la Prefettura». «Alle 13,35 si ode il rombo dei motori di una formazione Americana che passa sulla città. Il popolo crede si tratti di aeroplani amici, quindi non corre ai rifugi. Quale grave sciagura per i poveri cittadini e per la città! Gli aeroplani non sono di amici, ma di nemici!! Si abbassano, sgancia[no] a centinaia le bombe e questa volta è colpito il centro abitato, dal ponte sul Calore [il ponte Vanvitelli] in su, sin quasi vicino alla Cattedrale! […] Il numero delle vittime passa il migliaio. […] Il terrore è sul volto dei superstiti. I feriti a centinaia vengono estratti dalle macerie e portati all’ospedale civile ove mancano [la sottolineatura è nel testo] i medicinali persino per le prime cure».
Il giorno dopo era domenica: allo stesso orario (13,35) «quadrimotori americani si precipitano di nuovo sulla città e con orrore satanico lanciano le loro bombe a centinai[a] sulla cattedrale, sui palazzi di fronte, sulle vie adiacenti, sull’ospedale civile, distruggendo ogni cosa. La vetusta Cattedrale è ridotta in condizioni miserabili e così l’Arcivescovado. Il bombardamento è sì terribile che la terra si scuote, la polvere acceca. […] S.E. Mons. Mancinelli, che si è rifugiato al Regionale [quello che era allora il Seminario Regionale, nella parte alta, sostanzialmente fuori dell’abitato], scende in città per osservare il palazzo semidistrutto».
Tutto questo, però, non bastò. Il 26 settembre un nuovo bombardamento, ancora una volta con «molte distruzioni». Infine, il 30 settembre, un terribile colpo di coda: una grande incursione area «a diverse ondate. La Cattedrale viene rasa al suolo con bombe dirompenti e spezzoni incendiari. […] I morti non si contano. Dal Seminario Regionale alla Cattedrale, dal Seminario Diocesano al ponte sul Calore, dall’ospedale civile al Tribunale si nota un cumulo unico di macerie».
L’ultima annotazione relativa ai fatti parla da sé. Risale al 2 ottobre: «Gli Anglo-Americani occupano Benevento. Cannonate tedesche colpiscono in pieno il Santuario delle Grazie [la sottolineatura è nel testo]. La città è un cumulo di macerie. Due terzi delle case sono distrutti. Anche l’Episcopio subisce la medesima sorte. I saccheggiamenti continuano».
Questa testimonianza preziosa, ottant’anni dopo, aiuta a capire meglio di tanti discorsi la forza distruttiva della guerra, «aborto di uomini dementi», come ebbe a definirla il poeta Elio Filippo Accrocca. Quella cattedrale che terremoti violenti e spaventosi, nel corso dei secoli, non erano riusciti mai ad atterrare del tutto, fu allora rasa al suolo senza pietà; l’archivio dell’arcidiocesi, che racchiudeva buona parte della storia d’Italia meridionale in età medievale e moderna, ridotto in fumo. Migliaia di morti furono il macabro trofeo di quei giorni… Per questo la pace va perseguita ad ogni costo, perché – diceva sant’Agostino – le guerre, «anche quelle che si dicono giuste», portano solo «grandi miserie» (De civitate Dei XIX, 7) e perché – come affermava Pio XII nel 1939, alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale – «nulla è perduto con la pace», mentre «tutto può esserlo con la guerra». Ieri come oggi…