Gli iscritti al PD non contano nella determinazione delle scelte politiche: l’amministratore del condominio del partito è stato scelto, con voto determinante, da condomini estranei all’elettorato DEM
Con una metafora, cerchiamo di rendere l’idea di ciò che è avvenuto nelle primarie del Partito Democratico di domenica scorsa. Per la prima volta, in campo nazionale, dopo 16 anni da quando è stato costituito il Partito Democratico, le primarie hanno ribaltato il voto degli iscritti nella scelta del segretario del partito.
In Italia, un qualsiasi cittadino, anche non elettore del Pd, può recarsi a un seggio del Pd per scegliere il segretario nazionale o il segretario regionale del Pd. E, nei grandi centri, dove viene istituito almeno un seggio per ogni rione, può succedere che un cittadino possa recarsi a votare in più di un seggio, dal momento che non deve esibire una scheda o un certificato elettorale, inconveniente, questo, che, già accaduto in passato, non può verificarsi in America, dove il cittadino, intenzionato a scegliere il candidato presidente di un determinato partito, va a prenotarsi presso il partito prescelto, sicché non può darsi il caso che egli voti più di un volta.
Ovviamente, come in America, le primarie sarebbero indicate, come scelta democratica posta al servizio dei cittadini, se si dovesse scegliere il candidato alla presidenza del Consiglio, dal momento che il capo del governo rappresenta tutti i cittadini, ma non nella scelta del segretario di un partito politico. Altrimenti, qual è la funzione degli iscritti ad un partito politico, se non quella di esprimere gli organismi dirigenti ad ogni livello?
Questo avveniva in Italia, nell’ambito di tutti i partiti, prima della caduta delle ideologie, durante la Prima Repubblica, quando c’era la politica, per dirla con Ferdinando Casini, il quale, vissuto politicamente sempre di tattica, non può essere un nostalgico di quando c’era la politica, al punto da scrivere un saggio in merito.
Nella Prima Repubblica, almeno nei partiti della sinistra, un militante avrebbe dovuto avere un certo numero di anni di iscrizione al proprio partito, per essere eletto nel rispettivo Comitato Centrale, non pletorico come è ancora l’assemblea nazionale del Pd, anche se il numero dei componenti è stato ridotto da 1.000 a 600. Ovviamente, gli eletti nei comitati centrali dei partiti della sinistra, non semplici iscritti, avrebbero dovuto maturare anche una esperienza di dirigenti a livello provinciale.
Discorso, questo, che non si poneva per la elezione nei vari consessi elettivi. Il partito comunista, infatti, garantito dalla sua forza elettorale, per allargare la sua presenza nel mondo della cultura, già ampiamente schierato a sinistra, nel mondo dello spettacolo e in quello della società civile, candidava molti indipendenti nelle sue liste, dando disposizione alle sue federazioni provinciali di orientare le preferenze anche verso i candidati indipendenti. Infatti, il Partito comunista ha avuto, negli anni 70, gruppi parlamentari indipendenti, sia alla Camera che al Senato, denominati “Sinistra Indipendente”. Questo era possibile perché i parlamentari, o i consiglieri regionali, anche se iscritti al Partito in nome del quale venivano eletti, non determinavano scelte politiche. Tali scelte, delle quali magari erano partecipi anche alcuni di essi, venivano adottate dai partiti, quando i partiti contavano.
Oggi, che non ci sono più i partiti, a parte il Pd che conserva la tradizionale struttura organizzativa, nella quale sono state introdotte soltanto le primarie, contano le persone, le quali danno anche il proprio nome alle strutture politiche da esse create. Non a caso, da quando è stata soppiantata la Prima Repubblica dopo “Mani Pulite”, queste persone hanno escogitato, soltanto per la elezione dei deputati e dei senatori, sistemi elettorali, che conferiscono ad esse la scelta di chi deve essere eletto in liste bloccate, togliendo ai cittadini il diritto di esprimere la preferenza per il candidato gradito. Così abbiamo avuto, per lo più, dei parlamentari asserviti ai rispettivi capi politici, per avere la garanzia della loro riconferma in Parlamento.
Con il governo Meloni si sta registrando il culmine di tale asservimento politico. Abbiamo, infatti, dei ministri, alcuni anche parlamentari, che per riconoscenza nei confronti di chi li ha nominati parlamentari, prima, e ministri, poi, sono più salviniani di Salvini, più meloniani della Meloni, più berlusconiani di Berlusconi. Non a caso, il ministro Valditara si è permesso di bacchettare Annalisa Savino, la preside del “Da Vinci” di Firenze che ha cercato, con una lettera aperta ai suoi studenti, di spiegare come è nato il fascismo in Italia, dopo il pestaggio squadrista premeditato ai danni di studenti del liceo “Michelangelo”. In una puntata di Otto e Mezzo de La7, Lilly Gruber chiese a Italo Bocchino perché la Meloni non era intervenuta rispetto a tale episodio di violenza. Bocchino rispose che Meloni, come presidente del Consiglio, ha altri problemi cui prestare attenzione. Ma la Gruber gli replicò dicendo che la Meloni prese posizione (“meglio i manganelli, meglio le università blindate”) rispetto alla carica posta in essere il 26 ottobre scorso all’Università La Sapienza contro gli studenti che erano stati impediti di appendere uno striscione davanti alla facoltà di Scienze Politiche per chiedere l’allontanamento dei fascisti dalla facoltà (erano presenti, infatti, nella facoltà il deputato meloniano Fabio Roscani e Daniele Capezzone, quest’ultimo già segretario nazionale del Partito Radicale, già berlusconiano). Il tutto avvenne il giorno in cui la Meloni, nell’esporre le dichiarazioni programmatiche del governo, manifestò empatia per i giovani che non avrebbero condiviso il suo disegno politico. Bocchino, che siamo costretti a vedere quasi tutte le sere alla trasmissione condotta dalla Gruber, stette zitto rispetto a questa osservazione. Ma il governo Meloni, composto da FdI, Lega e Forza Italia, con il 43% conseguito alle politiche del 25 settembre 2022,corrispondente al 27% della totalità degli elettori, è minoranza nel Paese. E’, invece, maggioranza in Parlamento (25 deputati in più alla Camera e 15 senatori in più al Senato) grazie alla legge elettorale di Rosato, il renziano affetto da infantilismo politico che aveva pensato di far vincere, con tale legge, il Pd di Renzi nel 2018. Siccome tale legge richiede la formazione di coalizioni tecniche più che politiche per vincere nei collegi uninominali, Enrico Letta ha la responsabilità di non aver fatto la coalizione con i Cinque Stelle, soltanto perché Giuseppe Conte aveva determinato la caduta del Governo Draghi. Un governo, questo , voluto da Renzi sulla spinta dei poteri forti che non erano riusciti, nel corso di tutto il 2020, a far cadere, con la potenza dei loro giornali, il governo giallo-rosso presieduto da Giuseppe Conte. Eppure il governo Conte bis era stato voluto proprio da Renzi quando questi era ancora nel Pd. Infatti, per evitare che si andasse ad elezioni anticipate nel settembre del 2019, dopo la crisi di governo innescata da Salvini, l’ex presidente del Consiglio voleva impedire che il capo della Lega, forte di un 38% nei sondaggi dopo il 34% conseguito alle europee nel maggio di quell’anno, andasse a Palazzo Chigi. Si pensi che a realizzare con Grillo la coalizione tra Pd e Cinque Stelle, è lo stesso Renzi che, un anno e mezzo prima, in una sortita televisiva, da non più segretario del Pd, aveva precluso l’incontro del suo Partito con i Cinque Stelle, interessati come forza di maggioranza relativa a sondare le altre forze politiche per la formazione del governo. Non è dato sapere se Renzi abbia voluto il governo giallo-rosso per impedire lo scioglimento delle Camere e, conseguentemente, per preparare meglio la sua uscita dal Pd, un mese dopo, con qualche suo deputato alla guida di qualche dicastero. Ma si dà il caso che la formazione del governo giallo-rosso, scaturito dall’incontro di Renzi con Grillo, provocò l’uscita dal Pd di Carlo Calenda, del quale Renzi è oggi alleato nel cosiddetto terzo polo. Però Calenda, secondo noi, prese a pretesto la formazione di quella alleanza con i Cinque Stelle, per uscire dal Pd e fondare un suo soggetto politico. Ma per fare questo non poteva essere un qualsiasi cittadino. Infatti, entrato direttamente nella Direzione nazionale del Pd, venne subito candidato alle europee del 2019 come capolista nella circoscrizione del nord-est proprio per aver una carica di parlamentare che gli consentisse di fondare il suo soggetto politico, sicché, se non ci fosse stata l’alleanza tra Pd e Cinque Stelle, Calenda avrebbe preso a pretesto qualche altra circostanza per uscire dal Pd. Dopo poco più di un anno di governo giallo-rosso, Renzi, per giustificare l’uscita di Italia Viva (il suo soggetto politico) dal governo comincia a porre una serie di condizioni al premier Conte. Ma nella misura in cui Conte comincia ad accettare qualche condizione, come il ricorso al Mes, Renzi rincara la dose, favorendo, come dicevamo, l’arrivo di Draghi, dal momento che a Conte sono mancati cinque voti al Senato per avere in quel consesso la maggioranza qualificata (la metà più uno). E si dà il caso che Renzi non porrà a Draghi le stesse condizioni poste a Conte. In questa riflessione, abbiamo spiegato come e perché i politici abbiano preso il sopravvento sulle forze politiche di appartenenza, riducendole al loro servizio, invece di essere loro, come nella Prima Repubblica, al servizio delle rispettive forze politiche. Con l’avvento della Seconda Repubblica, cadute le ideologie nei partiti, intesi in senso lato, assistiamo ad un frenetico cambio di casacca da parte di molti politici. Squallide operazioni trasformistiche che vengono giustificate con “solo gli imbecilli non cambiano idea”. Certo, le idee possono cambiare, ma nell’ambito di una idea di fondo. Altrimenti, si è portati a ritenere che si entra in politica non per perseguire delle idee ma solo per realizzare interessi personali. Nei primi decenni del dopoguerra, quando un dirigente politico lasciava il proprio partito per entrare in un altro partito, nella richiesta di iscrizione doveva motivare la crisi di coscienza che aveva subito, crisi che aveva determinato la sua scelta e la contiguità delle sue idee con quelle del partito nel quale si accingeva ad entrare. I non più giovani ricordano, infatti, come avvenne il passaggio nel Psi di eminenti esponenti del Pci, dopo i fatti di Ungheria.
Oggi, invece, la società è cambiata, dice Francesco Boccia, alter ego di Enrico Letta, sostenitore della candidatura alle primarie di Elly Schlein. Ma i trasformismi, caro Boccia, restano trasformismi. Elly Schlein, la nona segretaria del Pd in sedici anni di vita del Partito, figlia di professori universitari (il padre americano, la madre italiana), benché abbia appena 37 anni, ha un lungo percorso politico. Giovanissima, a 22 anni, partecipa alla campagna elettorale di Barack Obama, poi aderisce a “Possibile”, la formazione di Pippo Civati, del quale aveva sostenuto la candidatura alla primarie del 2013, quando il giovane deputato lombardo era ancora nel Pd. E, nonostante Civati si piazzi al terzo posto dietro Renzi e Cuperlo, la Schlein viene eletta nella segreteria Dem. Nel 2014, l’attuale giovane segretaria del Pd, viene eletta parlamentare europea nelle liste del Pd, ma nel 2015, in disaccordo con il segretario Renzi, abbandona il Pd. Nel 2019 non si ricandida alle europee, ma punta alle regionali dell’Emilia Romagna, essendo una cittadina di Bologna dove ha conseguito la laurea in Giurisprudenza. Si candida in una sua lista, nella quale viene eletta. Ma, ottenute 22mila preferenze, una cifra mai raggiunta da altri candidati, Stefano Bonaccini la nomina sua vice. Alle politiche del 25 settembre 2022, si candida come indipendente in una lista dem plurinominale per la Camera. Ottenuta la elezione, si dimette da consigliere regionale e poco dopo si iscrive al Pd in funzione della sua candidatura alle primarie del 26 febbraio scorso. Un percorso politico non del tutto lineare, quello della Schlein. Speriamo che come segretaria del Pd non abbia tentennamenti, nel senso che, nel caso non dovesse più essere alla guida del Pd, non emuli Renzi. Bonaccini, invece, nato politicamente nel Pci, ha aderito al Pd, il partito costituito nel 2007 dai Ds, da La Margherita e da forze laiche e socialiste, avrebbe dato maggiori garanzie. Ma nella elezione di Schlein a segretaria del Pd ha fatto la differenza la partecipazione al voto della estrema sinistra, secondo quanto ci è dato di sapere in ambienti dem, un inquinamento del voto, a giudizio degli stessi ambienti, che a Benevento non c’è stato e non ci poteva essere dal momento che in città vi era un unico seggio. Ma anche in provincia non vi poteva essere alcun inquinamento, poiché, in alcuni casi, vi erano seggi che comprendevano più comuni. A questo punto, resta da vedere come si concilia la sterzata più a sinistra che la Schlein intende dare al Pd con la presenza in esso di Boccia e Letta, che di sinistra non sono. Sulla stampa locale, qualche sostenitore della Schlein ha parlato di fine dei sultanati anche a Benevento, come se la neo segretaria dovesse ingerire nelle scelte autonome della federazione, il cui segretario, Giovanni Cacciano, non un sultano, ha dichiarato di essere a fianco della Schlein. A queste frecciate, ha però risposto il vice segretario della federazione dem, Pio Canu, con la seguente nota.
“Le Primarie di domenica scorsa ci hanno consegnato un PD Sannita in salute con un’eccellente capacità di mobilitazione ed un’invidiabile organizzazione territoriale.
È doveroso ringraziare i tanti Amici e Compagni che, in regime volontaristico (troppo spesso lo dimentichiamo), hanno reso possibile questa bella Festa Democratica.
La nostra provincia ha visto un’ampia partecipazione (10mila cittadini) superiore a quella di Avellino, in numeri assoluti, e percentualmente doppia rispetto a Salerno.
La città di Benevento, con l’85 per cento dei consensi, è stata il capoluogo italiano con la più alta percentuale in favore di Stefano Bonaccini ed in assoluto la peggiore per Elly Schlein con solo il 15 per cento, quaranta punti sotto la media nazionale.
Un risultato modestissimo ancorché non orfano di illustri apporti.
Il dato cumulativo del 76,3 per cento attesta la provincia di Benevento al secondo posto italiano su Bonaccini, un’incollatura dietro Salerno ma trenta punti sopra la media nazionale.
Al contempo, il risultato provinciale della Schlein è oltre trenta punti sotto la media.
Al compagno Antonio Iavarone, che deve aver mutuato dalle colline apicesi un’antica ritrosia per i numeri e le percentuali, rivolgiamo una riflessione di ‘deandreana’ memoria: «si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio». Pertanto, nel rivolgergli le nostre sincere felicitazioni per l’elezione in Assemblea nazionale, ci auguriamo che in futuro possa scansare i cattivi consiglieri e il livore che li muove.
Il PD Sannita è una casa ben salda e aperta a Tutti in cui l’«Io» è funzione del «Noi», diversamente dalle spregiudicate e fameliche ambizioni di qualcuno/a”.
Totale votanti: 9.598, voti validi: 9567. Bonaccini: voti 7.300, pari al 76,30%, Schlein: 2.267, pari al 23,70%. Bianche/nulle: 31.
Giuseppe Di Gioia