Nella presentazione del libro di Gisondi, una lucida e puntuale analisi di Perifano delle vicende beneventane
In un incontro, presieduto dal prof. Marcello Rotili, figlio del più famoso Mario, sindaco Dc di Benevento in due consiliature tra gli anni 50 e 60, l’europarlamentare emerito Roberto Costanzo; l’assessore alla Cultura del Comune di Benevento, Antonella Tartaglia Polcini, docente di diritto e Economia all’Unisannio, sorella del magistrato Giovanni e figlia del defunto prof. Carlo, del quale ricordiamo la militanza socialista nei suoi anni ancora giovanili; l’Avv. Luigi Diego Perifano, sindaco morale di Benevento, perché in competizione con Mastella, è stato il più votato in città; e il prof. Giuseppe Acocella, Rettore dell’Università telematica “Giustino Fortunato”, che ha concluso l’incontro, hanno presentato il libro “Novella Atene o piccolo borgo?”, nel quale si parla di “Benevento e il Sannio tra miti, storia e politica”, una fatica letteraria del prof. Antonio Gisondi, docente di filosofia presso l’Università di Salerno.
Noi pubblichiamo l’intervento di Luigi Diego Perifano, portavoce dl Alternativa per Benevento in Consiglio comunale.
“Il lavoro del professore Gisondi”. ha esordito Perifano, “ è un lavoro complesso, perché c’è una lettura molto articolata degli eventi e delle fasi storiche: propone addirittura 35 chiavi di lettura. Però, a fronte delle 35 chiavi di lettura, il filo conduttore è unico, perché è un libro in cui si prende posizione. C’è il valore del ricercatore, l’approccio e l’analisi oggettiva dei fatti, ma il libro, in definitiva, è costruito su una idea ben precisa, che, dal 3 settembre 1860 in poi, la rivoluzione senza risorgimento, come l’ha definita Mellusi, nessun processo politico e culturale ha spezzato la quiete della vecchia étoile. Questo è il filo conduttore del ragionamento ed emerge con chiarezza in tutte quante le pagine. Diciamo che Gisondi sintetizza e fotografa questo concetto, parlando di una resistenza per inerzia agli impulsi modernizzatori, ed in questa frase c’è la sintesi di un pensiero e c’è anche un giudizio critico della storia che abbiamo vissuto.
Prudentemente, alle soglie della contemporaneità, Gisondi afferma il concetto di ottimismo della conservazione, un giudizio imputato a questa rivendicazione orgogliosa dell’identità storico-mitica della datazione sannita. Le parole attuali di Antonio Gisondi, relative ad una resistenza per inerzia, di impulsi conservatori fanno da pendant ad un giudizio risalente ad un prefetto del periodo post unitario, il prefetto Gatti, che parla di cieca ostinazione del passato che fa la guerra ad ogni progresso. Quindi è da questo punto di partenza che si sviluppa l’interrogativo di Antonio Gisondi, che descrive molto bene nel libro la fase del passaggio dall’étoile pontificia allo Stato unitario, un passaggio dominato a Benevento dalla continuità, perché il partito di élite aristocratico governa questa fase di passaggio, che Tomasi di Lampedusa, nel suo Gattopardo,ha raccontato benissimo. Voglio dire che è accaduto a Benevento quello che esattamente è accaduto altrove.
Quindi, abbiamo una lunga fase politica dominata dal notabilato. Allora non c’erano i partiti organizzati, c’erano dei gruppi di persone economiche che costituivano anche blocchi, e avevano il monopolio del voto. Quindi, se la suonavano e se la cantavano, in una situazione che non dava grandi problemi, perché la scena politica era predominata da quegli interessi che erano anche gli unici che avevano il potere di rappresentarsi in termini elettorali. Quindi, il cerchio si chiudeva perfettamente, però qui voglio fare una provocazione a dimostrazione della riflessione di Antonio Gisondi. In questa storia, che sembra nata da un continuismo inevitabile ,ci sono degli squarci addirittura inaspettati, ed io invito a considerare cosa succede nella scena politica di questo piccolo borgo nello scorso secolo, tra il 1900 e il 1910, perché è in questa realtà che abbiamo visto irrompere sulla scena elementi di continuità rappresentati dall’esperienza politica socialista e cattolica. Attenzione, dei socialisti e dei cattolici nella città di Benevento che riescono, attraverso la loro visione e la loro cultura moderna, a lasciare una traccia molto visibile di percorsi innovativi perché si passa ai partiti organizzati.
Oggi è normale discutere della fine dei partiti, ma all’epoca il partito organizzato era una entità sconosciuta, mentre a Benevento socialisti e cattolici impongono la modernità della politica, perché aprono le sezioni di partito, perché costituiscono le università popolari, perché si appoggiano ai sindacati. E’ un qualcosa di incredibile, rivoluzionario, che scuote la quiete del piccolo borgo, in questo caso. Ed è straordinario come, in questo contesto, vi sia stata un’anticipazione di quello che è poi accaduto sul piano nazionale. Quindi, una volta siamo stati i modernizzatori, in anticipo, perché il movimento socialista si radica in una città piccola, come Benevento, dove non esiste un tessuto sociale operaio, ed elegge nel 1904, per la prima volta, un sindaco socialista. Guardate che Milano, nella culla del riformismo, la patria di Turatti, di Treves, di Curcio, elegge un sindaco socialista per la prima volta nel 1914.
A Benevento, in questa ex conclave pontificia, il primo sindaco socialista arriva nel 1904, cioè stanno avanti anche i cattolici, perché i cattolici a Benevento decidono di entrare nella fase politica ben prima dell’evoluzione nazionale segnata nel 1913. I cattolici scelgono un impegno diverso in politica, nella città di Benevento, già nel 1906, e naturalmente si raccolgono attorno alla figura dell’allora giovanissimo Bosco Lucarelli, ma sono ispirati da un’altra figura importante, quella dell’arcivescovo Benedetto Bonazzi, un grecista e latinista insigne, una persona di grandissima cultura, appassionato di cultura greca. Parliamo di una personalità assolutamente di primo ordine. Ecco, io direi che ci sono stati dei lampi di luce, che in questa fase hanno rappresentato una incredibile novità, in un contesto che abbiamo descritto come sonnolento, restìo alla novità e al cambiamento.
Poi, ci dovremmo chiedere perché questi esperimenti non abbiano ottenuto fortuna. I socialisti hanno eletto Luigi Basile sindaco nel 1904, e lo hanno portato in Parlamento nel 1913, ma non avevamo la forza di realizzare questi risultati da soli. Abbiamo detto che prima non c’era l’humus culturale ed economico che poteva alimentare la storia del movimento socialista e quindi i socialisti finirono col scegliere l’alleanza con i demo/radicali di Leonardo Bianchi. La stessa cosa vale per i cattolici che, dopo aver voltato per quasi cinquant’anni le spalle alla politica, si erano estraniati. Non avevano, nell’entroterra, qualcuno che gli consentisse di realizzare un piano politico, per cui si allearono con Mussolini.
Quindi, gli impulsi di novità dei socialisti e dei cattolici furono inevitabilmente dettati dalla esigenza di costruire delle alleanze, e le alleanze non poterono non costruirle con quelle espressioni del notabilato liberale. Quindi questo cosa comporta? Comporta che alla chiusura della prima guerra mondiale, nel biennio successivo, nella città di Benevento socialisti e cattolici arrivano con le ruote sgonfie, perché Basile è passato dall’esperienza del partito socialista, quindi forte di un rapporto tra la città e il resto della provincia, un rapporto che però diventa sempre più istituzionale e meno di popolare. Basile, nel 1919, viene rieletto al Parlamento nella composizione di un’alleanza molto mista, in cui sono pochi gli elementi socialisti. Il movimento socialista arriva infiacchito all’appuntamento con la storia, che è quello decisivo del contrasto al nascente movimento fascista. Anche i cattolici, quindi, scontano l’incertezza popolare che si evince da parte del popolo, nel dare un giudizio netto nei confronti dei fascisti.
Quindi, perdono peso i cattolici e i socialisti, ed emerge la figura di Raffaele De Caro, che realizza un miracolo dal punto di vista politico, anche se, come Gisondi ha più volte sottolineato, non è che il continuatore della tradizione conservatrice di Benevento. Bisogna, però,riconoscere che De Caro, approfittando della debolezza dei cattolici e dei socialisti, si erge come unico baluardo forte e resistente con l’avvento del movimento fascista, e lo fa concependo un esperimento politico che trasuda di una intelligenza unica, perché mette insieme i principi del nazionalismo, e poi, come dice Gisondi, dell’antigiolittismo, dell’antisocialismo, dell’antimilitarismo.
Sembrerebbe una scena impazzita, ma De Caro riesce ad organizzare e a dominare, perché, a differenza delle vecchie élite liberali, che hanno una visione molto ristretta della partecipazione popolare alla vita politica, De Caro è già rodato con la legge del 1915, cioè con la legge del suffragio universale maschile. Quindi ha bene chiaro che il liberalismo vecchio stampo non ha più futuro e che, quindi, bisogna radicare un movimento popolare, che è esattamente quello che fa De Caro. Quindi, De Caro diventa grande protagonista di quelle fase politica, ed è l’unico in condizione di contrastare il fascismo. E quell’intelligenza politica si perpetua anche durante il ventennio, perché De Caro riesce anche nell’impresa di essere il grande anche nella fase post fascismo.
Quindi, è il vero garante della transizione della classe dirigente dal ventennio alla nuova vita repubblicana. E poi, come ha detto l’on. Costanzo, il dopo guerra ci consegna quell’anomalia tutta beneventana e sannita, perché i cambiamenti della politica si svolgono tra due poli di osservatori: il conservatorismo liberale e monarchico di De Caro e, come ha sottolineato l’on Costanzo, il conservatorismo socio religioso di Bosco Lucarelli.
Quindi, è una dialettica che si svolge tra due poli conservatori, e sono completamente assenti, da questa fase – De Caro-Bosco Lucarelli -, la sinistra, il movimento operaio, la cultura post-socialista ,la cultura comunista, una fase che rappresenta una anomalia. Io però voglio concludere, raccogliendo una riflessione su due temi che sono cari all’onorevole Costanzo: uno gli è rimasto nella penna, però è un tema molto personale. La prima questione è la qualità delle classi dirigenti di Benevento e del Sannio, perché l’on. Costanzo, quando ha fatto un passaggio dicendo: “attenzione ad non rincorrere finanziamenti non finalizzati ad opere strategiche”, non ha fatto altro che riproporre l’antica e irrisolta questione tra classi dirigenti estrattive e classi dirigenti inclusive. Le classi dirigenti estrattive sono quelle che impongono la propria autorità, il proprio potere sulla mediazione della spesa pubblica, sulla capacità di attrarre finanziamenti, di rispondere, attraverso la politica, ai bisogni primari. Le classi estrattive sono anche quelle meno aperte all’innovazione. Le classi dirigenti inclusive sono quelle che sanno valorizzare i talenti e costruire una prospettiva per il futuro. E questo ha molto a che vedere con il lavoro di Antonio Gisondi, così come la risoluzione dell’interrogativo tra dov’è la fede che poi diventa un’altra questione che è cara all’onorevole Costanzo: il rapporto tra la città di Benevento e il resto della politica, perché possiamo dire che a distanza di 160 anni dall’unità d’Italia questo tema non è ancora irrisolto. Benevento fu un capoluogo di provincia, disegnato con un compasso, per cui, il giorno dopo la costituzione della provincia, emerse un problema, quello che non vi erano strade che collegassero Benevento al resto del territorio che era al di là della provincia. Benevento era isolata fisicamente dal resto del territorio, ed io credo che questo handicap abbia prodotto, nel tempo, le sue conseguenze, per cui penso che, ancora oggi, l’aspirazione di questa città a costruirsi una nuova Atene e a non scivolare nella direzione di un piccolo borgo, dipenda moltissimo dalla capacità di Benevento di proporsi come capoluogo della provincia, non solo dal un punto di vista formale, ma dal punto di vista della connessione sentimentale e della capacità di vincere i processi”. (gdg)