Mentre Ricolfi accusa Conte di aver causato decine di migliaia di morti, Draghi seguirà, forse con maggiore rigore, la linea di lotta al Covid adottata finora
Il Mattino del 16 febbraio pubblica un articolo di Luca Ricolfi, in cui il sociologo torinese, nel riassumere in modo “rozzo e semplicistico”, il contenuto de “La notte delle ninfee”, afferma: “La politica sanitaria del governo Conte bis ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia”.
A riconoscere il contenuto della sua ultima fatica letteraria, sarebbe ora “nientemeno che Walter Ricciardi, il consulente principe del ministro della salute, Roberto Speranza”. Il virologo dell’Università Cattolica è solito parlare a posteriori, nel dire “Io avevo detto, io avevo proposto”. Dai giornali è considerato l’uomo dei lockdown. Recentemente, al fine di contenere i contagi, avrebbe proposto un breve lockdown, per guadagnare tempo rispetto all’attesa di avere dosi di vaccino non più con il contagocce. Ma anche per consentire la vaccinazione delle persone fragili e ultraottantenni. E’ però lo stesso Ricciardi che ha detto di aver proposto dei lockdown zonali, rispetto al lockdown totale e nazionale della primavera scorsa, che in poco più di due mesi ci fece uscire dalla fase critica del Covid, al punto da far dire al prof. Zangrillo che il Coronavirus “è clinicamente inesistente”.
Fulmini e saette si abbatterono sul governo, da parte delle opposizioni, anche da parte di Salvini, che l’8 marzo aveva chiesto a Conte di estendere a tutta Italia il lockdown che il presidente del Consiglio, il giorno prima, aveva disposto solo per 20 province comprese tra Lombardia ed Emilia Romagna. Secondo le opposizioni, per uscire dal lockdown, non bisognava aprire con il freno a mano tirato, bisognava consentire la mobilità interregionale, disposta solo il 3 giugno da governo, e internazionale.
Bisognava, quindi, aprire tutto, sollecitavano le opposizioni nell’intento, senza però riuscirvi, di raccogliere il consenso di gestori della ristorazione, di discoteche, di palestre, di sale cinematografiche, di stabilimenti balneari, contrari ad isolare con lastre di plexiglas gli ombrelloni, e di hotel, favoriti tuttavia, questi ultimi, dal bonus vacanze messo a disposizione dal governo, una misura non gradita dal direttore di Libero, il leghista Pietro Senaldi, che però non spiega i motivi.
A questo punto, anche i comuni cittadini si ritennero legittimati di fare le vacanze all’estero, oltre ad eludere le raccomandazioni governative di tenere ancora alta la guardia nel continuare ad indossare la mascherina, ad igienizzare le mani e a osservare il distanziamento sociale, perché il virus non era stato del tutto sconfitto.
E’ successo poi che al rientro dalle vacanze, da località estere dove il Covid era ancora abbondantemente presente, e anche dalla indenne Sardegna, dove molti turisti Covid-esenti erano stati contagiati da turisti Covid-positivi, non tutti inconsapevoli, se si tiene conto che, per superare varchi di stazioni ferroviarie, di porti e aeroporti, non pochi di loro appoggiavano sulla fronte bottigliette di acqua ghiacciata per mantenere bassa la temperatura corporea.
Così, nel mese di agosto, di fronte ad un aumento del numero dei contagiati, il governo ha imposto, finché ha potuto (infatti, chi magari dalla Spagna doveva rientrare in Italia, passava per un paese Covid-free), controlli e quarantene, cercando di contenere i contagi, senza infliggere ai cittadini e all’economia il sacrificio di un altro lockdown, alla luce di come era montata la protesta, alimentata dalle opposizioni, durante e dopo il lockdawn dei precedenti mesi di marzo, aprile e parte di maggio.
Nel mese di novembre, però, quando il numero dei contagi e dei decessi aveva raggiunto l’acme, tutti i giornali, eccetto il Fatto Quotidiano, hanno scritto, con il senno del poi, che bisognava bloccare, con un lockdown, la seconda ondata del Covid, al suo nascere nel mese di settembre. Lo ha detto anche il signor Ricolfi, sempre con il senno del poi, quando nel mese di novembre ha cominciato a scrivere “La notte delle ninfee”. Nel mese di dicembre, in uno dei talk show de La 7, in cui dilagano ancora i giornalisti dei tre giornali milanesi (Il Giornale, La Verità e Libero), un giornalista vicino alla Lega, Claudio Brachino, disse che il premier Conte non era affidabile, poiché pochi giorni prima aveva detto che entro la fine di dicembre sarebbero arrivati i vaccini, per poi smentirsi qualche giorno dopo sostenendo che i vaccini sarebbero arrivati a fine gennaio 2021. A parte il fatto che Conte, niente affatto interessato a prendere per i fondelli i cittadini come fanno certi politici e certi giornalisti, comunicava ciò di cui era a sua conoscenza, si è poi avuto la conferma che i primi vaccini sarebbero arrivati il 27 dicembre. Nessuna delle conduttrici dei talk show de La 7 ha fatto poi notare a quel giornalista che il suo era stato soltanto un atto di viltà verso Conte.
Ma, a proposito del modo come sia facile parlare con il senno del poi, va precisato che quando, soprattutto a Napoli, scoppiò la rivolta degli operatori economici e commerciali, dopo il DPCM del 24 ottobre, che disponeva la chiusura alle 18 di bar, ristoranti, pizzerie, luoghi di ritrovo e di divertimento, imponendo anche il coprifuoco, quegli stessi giornali, al netto della condanna delle infiltrazioni malavitose nella protesta, solidarizzarono con i predetti operatori, mentre Walter Ricciardi il 25 ottobre disse: “coprifuoco inutile, meglio il lockdown”. Cerchiamo solo di immaginare come si sarebbero scatenati contro Conte quei giornali se il presidente del Consiglio avesse disposto il lockdown nei primi di settembre.
Il proposito dei poteri economici e finanziari, che stanno dietro quei giornali, è stato quello di combattere, sin dal suo nascere il governo giallo rosso, ritenuto il più di sinistra della storia della Repubblica. Niente di più falso. Evidentemente, direttori e redattori di questi giornali, che hanno tutti un padrone al quale dover rispondere, non sanno quanto orientati alle attese della sinistra del Paese siano stati i governi di centro sinistra della Prima Repubblica.
A cavallo degli anni 60 e 70, dopo l’autunno caldo, una stagione caratterizzata da forti repressioni antisindacali, ma anche da una presa di coscienza dei propri diritti da parte dei lavoratori, presa di coscienza favorita dai socialisti al governo, il governo di centro sinistra varò uno stato sociale che venne invidiato dagli stessi svedesi, sempre antesignani in riforme sociali. Eppure, per quanto risulti a chi scrive, i comunisti non votarono lo Statuto dei Lavoratori, una legge che – voluta da Francesco De Martino (allora segretario del Psi, prima, e presidente del Consiglio, poi), dal suo estensore, Gino Giugni, capo della segreteria del ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, già componente la segreteria generale della CGIL – sarà poi ridimensionata,in buona parte, dal governo Monti, con il concorso dei post-comunisti, per ragioni opposte a quelle per cui i comunisti della Prima Repubblica non l’avevano votata, unitamente ad altre riforme, ritenute insufficienti rispetto alle attese dei lavoratori. Non a caso, la svolta segnata dai socialisti nel governo diede la stura alla strategia della tensione, che prese avvio con l’attentato, il 12 dicembre del 1969, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Il 16 marzo 1978, lo stesso giorno in cui, in via Fani, veniva rapito dalle Brigate Rosse Aldo Moro, Giulio Andreotti presentava alla Camera dei Deputati il IV governo presieduto da lui, governo che si valeva dell’appoggio esterno dei comunisti dopo che i comunisti si erano astenuti nel precedente governo (1976-1978), sempre presieduto da Andreotti, nella fase di avvio del compromesso storico (pagato con la vita da Moro), una operazione politica, questa, meglio definibile come compromesso tattico, poiché, ad avviso di Moro, i socialisti non coprivano più a sinistra.
Infatti, Francesco De Martino, nelle elezioni del 1972, aveva proposto equilibri più avanzati per meglio rappresentare la sinistra nel governo. Ma il Psi, non capito dagli italiani nella sua proposta, scese al 9,6%, mentre il Pci ottenne un milione di voti in più, un risultato che venne replicato, sic et simpliciter, nelle successive elezioni politiche del 1976, quando il Psi rimase inchiodato ancora al 9,6% e il Pci ottenne un altro milione di voti in più. Di qui la scelta di Moro.
Ma le elezioni politiche del 7 maggio 1972 segnarono anche il successo del MSI, nel quale era confluito il partito monarchico, per aver condotto una campagna elettorale finalizzata a dare tranquillità ai cittadini rispetto al diffondersi di episodi criminali. A nulla servì, a tale proposito, la precisazione di Rumor, allora ministro degli Interni, secondo cui nel 1938 i casi di criminalità erano stati assai maggiori rispetto a quelli verificatisi nell’anno precedente alle elezioni.
Per raccogliere, quindi, il senso di questo spostamento a destra dell’elettorato, la Dc, anche nel tentativo di contenere l’avanzata del Pci, diede vita, il 26 giugno del 1972, ad un governo centrista, stile anni 50, reclutando il Pli e il Psdi. Ma durò appena un anno, fino al 7 luglio 1973, poiché, al congresso della Dc del 1973, Amintore Fanfani aprì di nuovo ai socialisti, ritenendo antistorico il governo Andreotti-Malagodi.
Tuttavia, capo di quel governo centrista era lo stesso Andreotti, che assumerà poi la guida del suo terzo governo, il 30 luglio 1976, quando in attuazione del cosiddetto compromesso storico, i comunisti si astennero, per poi dare, come dicevamo, voto favorevole, al successivo governo, guidato sempre da Andreotti, l’uomo ritenuto valido per tutte le stagioni politiche, senza destare scandalo alcuno.
A scandalizzarsi, invece, del fatto che Giuseppe Conte, dopo aver guidato, dal primo di giugno 2018 al 5 settembre 2019, il governo giallo verde (M5S e Lega), ha poi guidato, dal 5 settembre 2019 fino al 26 gennaio 2021, quando si è dimesso senza essere stato sfiduciato, sono stati politici come Matteo Richetti e il capo della sua nuova formazione politica (Azione), fondata da Carlo Calenda, uscito dal Pd, dopo essersi fatto eleggere parlamentare europeo da questo partito il 26 maggio 2019, perché contrario alla partecipazione del Pd con i 5 Stelle al governo Conte 2, senza dire però che l’alternativa sarebbe stata lo scioglimento delle Camere e che nuove elezioni avrebbero portato Salvini a Palazzo Chigi. Evidentemente, si era candidato con la riserva mentale di lasciare, una volta eletto, il Pd, poiché avrebbe avuto bisogno di un medaglino parlamentare per fondare e assumere la guida di una formazione politica.
Ma del fatto che Conte abbia avuto la guida di due governi diversi si sono scandalizzati anche i giornalisti di quei giornali, controllati dai poteri economici e finanziari, ignorando, o fingendo di ignorare, che Andreotti ha guidato governi di fronti opposti tra di loro. Soprattutto, i predetti tre giornali milanesi, si sentono ora un po’ soddisfatti, di aver proposto, per togliere potere ai partiti del Conte 2, un governo tecnico guidato da Mario Draghi.
Ma il merito non è loro. Il merito è infatti di Matteo Renzi, il quale, contrario nel 2018 all’incontro del Pd con i 5 Stelle, ne ha poi favorito l’incontro, quando era ancora nel Pd, nel mese di agosto 2019, poiché era necessario, a suo dire, costituire un governo, per impedire l’aumento dell’Iva e per evitare elezioni anticipate che sarebbero state vinte dal centro destra.
Costituito il governo Conte 2, Renzi lascia il Pd con una trentina di deputati e una quindicina di senatori, per fondare un suo partito (Italia Viva), sapendo che nel governo sarebbe stato determinante. E lo è stato, quando le lobby di quei poteri, interessati a mettere le mani sui 209 miliardi del Recovery Plan, grazie alla centralità assunta dall’Italia in Europa per merito di Conte, sono intervenute su di lui, non essendo riusciti tutti i giornali controllati da predetti poteri a far cadere il governo giallo rosso.
Non ci sarebbe voluta una intelligenza raffinata, che Alessandro Barbano (cacciato dal Mattino qualche anno fa) ha riconosciuto a Renzi quando l’ex presidente del Consiglio ha detto a Conte: devi lasciare il controllo dei servizi segreti, devi togliere la gestione dei 209 miliardi al comitato di tecnici ( comitato che poi avrebbe dovuto rispondere nei confronti ministro dell’Economia), devi chiedere il Mes, come se il Pd non fosse stato capace a far cambiare idea ai 5 Stelle rispetto alla posizione ideologica assunta da costoro, nel non chiedere il Mes.
Ma quando poi, a parte il Mes, ha cominciato ad avere qualche riscontro positivo, Renzi ha rincarato la dose, pur di far cadere il governo. Ha chiesto la rimozione dei ministri Bonafede e Azzolina, la riforma della giustizia, l’apertura delle scuole, i vaccini e chi più ne ha più ne metta.
Il governo Draghi è, però, composto per un terzo da tecnici e da due terzi da politici, sicché la poca soddisfazione dei tre giornali milanesi, per il fatto di non aver avuto un governo di soli tecnici, è compensata dalla presenza in esso, con propri ministri, della Lega, che ha dovuto rinunciare a molti dei suoi capisaldi (antieuropeismo, sovranismo e flat tax, per fare solo degli esempi), di Forza Italia, oltre che dal M5S, dal Pd, da Leu e da Italia Viva, la quale ultima ha avuto un ministero in meno, quello con portafoglio, ma ha avuto la soddisfazione di aver fatto cadere Conte, anche se Draghi, nella sua relazione programmatica, non ha parlato di richiesta del Mes, né di apertura delle scuole senza sicurezza.
Soprattutto, Draghi ha riconfermato Roberto Speranza alla guida del Ministero della Salute. Una conferma che smentisce il signor Ricolfi, il quale in quell’articolo imputa a Speranza “la disastrosa politica sanitaria adottata fin qui”. Ma Ricolfi si deve mettere d’accordo con Massimo Giannini, direttore de La Stampa, secondo il quale la riconferma di Speranza è servita a dare continuità al suo operato che non ha demeritato.
Ammesso che Walter Ricciardi abbia dato, nel precedente governo, delle indicazioni a Speranza, e che questi si sia trovato nella impossibilità di porle in essere, in quanto, come riporta il signor Ricolfi in quell’articolo, “a prevalere era la linea di chi voleva convivere con il virus”, viene da domandarsi quale responsabilità può essere imputata al ministro, del quale, tuttavia,si percepiva il suo disappunto rispetto a certe scelte del governo.
Il signor Ricolfi imputa al governo anche il ritardo delle vaccinazioni, mentre vi è l’incubo delle varianti emergenti, ignorando che i vaccini, assegnati dall’Europa, non arrivano con la puntualità promessa. Secondo lui, il Giappone, la Corea del Sud l’Australia e la Nuova Zelanda ce l’hanno fatta a ridurre quasi a zero il virus, poiché hanno posto in essere i tre cardini proposti da Ricciardi: “lockdown breve e mirato, tornare a tracciare e testare, vaccinare a tutto spiano”. Ma poi Ricolfi dice che “assai raramente il lockdown costituisce l’ingrediente fondamentale”. Secondo lui “vanno affiancate altre misure, senza le quali si rischia un ulteriore fallimento. Le ricette di paesi appena citati “hanno due ingredienti basilari comuni: il controllo rigoroso delle frontiere da parte del governo e il rispetto rigoroso delle regole di distanziamento e auto protezione dei cittadini (misura, quest’ultima,disattesa dai giapponesi, almeno nella fase iniziale – ndr), entrambe condizioni che in Italia non si sono mai verificate”. Addirittura, in Giappone, “dove i viaggiatori che arrivano in aeroporto vengono sottoposti a test in entrata e in uscita, e il governo pretende di sorvegliare la quarantena con il Gps”.
Ma l’Italia, come la Francia, la Spagna, la Germania, l’Inghilterra, l’Olanda e gli Stati Uniti, dove la presenza del virus non è minore che da noi, è un paese molto più democratico rispetto ai paesi orientali citati da Ricolfi. In Italia, quando il ministro Speranza il 14 febbraio, il giorno dopo aver giurato nelle mani di Mattarella, ha prorogato fino al 5 marzo la chiusura delle stazioni sciistiche, chiusura che sarebbe scaduta proprio il 14 febbraio, c’è stato un De Manzoni, vice direttore de La Verità, che ha detto, il 15 febbraio, a “L’aria che tira” de La 7: “rispetto ai tanti assembramenti che si vedono nelle città, quelli che si sarebbero verificati nelle stazioni sciistiche sarebbero stati minori”. E forse non si potrebbe dargli torto, se non si considerasse il fatto che, mentre gli assembramenti nelle città, come l’affollamento di napoletani senza mascherina lungo via Caracciolo il giorno di carnevale, restano impuniti, e sappiamo anche il perché, quelli nelle stazioni sciistiche sarebbero stati legalizzati. La stessa conduttrice del talk show, Mirta Merlino, molto forgiata in Diritto Costituzionale, in sostegno di De Manzoni, ha detto che il provvedimento di Speranza, prima che il Parlamento votasse la fiducia al governo, è stato intempestivo, come se bisognasse consentire l’apertura delle stazioni sciistiche, per poi emanare il decreto di chiusura a fiducia votata.
A parte il fatto che quando un governo ha giurato nelle mani del Capo dello Stato è nella pienezza dei suoi poteri, ci viene da domandarci cosa sarebbe successo se la proroga della chiusura delle stazioni sciistiche fosse stato chiesta da Speranza il 12 febbraio, in occasione nell’ultima seduta del consiglio dei ministro del Conte 2, quando è stato prorogato al 25 febbraio il divieto della mobilità interregionale. Ma il grave è che, se non fosse stata prorogata la chiusura delle stazioni sciistiche, si sarebbe consentita in esse l’affluenza di svizzeri, potenziali portatori della variante sudafricana.
In nessuno dei paesi citati da Ricolfi, sarebbe stato consentito ad un professionista napoletano di andare, anche se per motivi di lavoro, in Africa e di rientrare con una nuova variante di Covid, di cui non si conosce il potere di infezione.
Secondo Ricolfi, ora “il lockdown non sarebbe la soluzione, bensì semplicemente il certificato di fallimento della politica sanitaria”.
Il grave è che probabilmente Draghi non ha letto “La notte delle ninfee”, altrimenti avrebbe chiamato Ricolfi a far parte del suo governo per combattere il Covid in Italia. Purtroppo, Draghi opererà, in linea di massima, in continuità con il precedente governo: manterrà i colori nelle regioni a seconda di come varieranno i contagi, finché il Covid non sarà stato debellato dai vaccini, e farà gestire i 209 miliardi da ministri tecnici scelti da lui, mettendo in atto esattamente ciò che Renzi non voleva che Conte facesse.
Giuseppe Di Gioia