Ondina Peteani – Il Numero 81672

di Lucia Caruso

ONDINA PETEANI, IL CORAGGIO DELLA RESISTENZA

Oggi, 25 aprile 2025, da queste colonne vogliamo rendere omaggio a Ondina Peteani (1925- 2003), figura simbolo della Resistenza italiana. Quest’anno, nel centenario della sua nascita, vogliamo ricordare la sua storia, fatta di coraggio e sacrificio, incarna il valore della lotta contro l’oppressione. Il racconto che segue è dedicato a lei, affinché non si perda la memoria di chi ha lottato per garantirci un futuro di libertà. 

Lunedi, 4 ottobre 1943. Nei cantieri navali di Monfalcone, una manciata di chilometri da Gorizia, la giornata è iniziata presto. L’aria all’interno del capannone è pesante, intrisa dell’odore pungente del metallo riscaldato e del sudore degli operai. Le grida di comando rimbalzano sulle pareti, sovrastate dal clangore del martello che picchia sul ferro. Ondina Peteani si sposta agilmente tra le macchine, cercando di evitare gli sguardi troppo curiosi. È minuta, diciottenne, ma con un cuore grande che batte con forza, in sintonia con il desiderio di superare la monotonia del lavoro quotidiano. All’ora di pausa, si appoggia a una delle travi, le mani coperte di polvere nera, difficile da togliere. Le tensioni crescono attorno a lei. Nei capannoni della fabbrica si parla a bassa voce. Le parole degli operai più anziani sono cariche di rabbia e speranza. Frammenti di discorsi arrivano alle sue orecchie: “Brigata Proletaria…sabotaggi…Resistenza. Basta piegare la testa. Bisogna agire.”Ondina abbassa gli occhi, ma dentro di sé sente accendersi un fremito. Ogni colpo di martello sembra battere il ritmo del cambiamento. Non può più ignorarlo.

Ha voluto sapere di più. Le hanno parlato della Brigata Proletaria e ha capito che è arrivato il suo momento. Non si tratta più solo di assemblare navi nei cantieri; ora vuole far parte di qualcosa di più grande. Diventare una staffetta partigiana sarà il suo contributo alla lotta.

Quella stessa sera, mentre il sole si dissolve nel golfo di Trieste, all’ombra di San Giusto, si reca ad un importante appuntamento. Cammina nel buio, con un fazzoletto rosso nascosto nella tasca del cappotto. Non c’è paura che tenga di fronte al richiamo della libertà. 

I giorni successivi sono un turbine di coraggio e nervi saldi. La ragazza entra ufficialmente nel Movimento di Liberazione, iniziando la sua vita da partigiana. Le prime missioni sono semplici, quasi ordinarie: portare messaggi tra un gruppo e l’altro. Percorre sentieri conosciuti, memorizza scorciatoie, trasporta messaggi nascosti con cura, parole che possono cambiare il destino di chi combatte. 

Ogni passo fuori dai cantieri potrebbe essere pericoloso. I suoi occhi, giovani e vigili, scrutano tutto. Sa che rischia molto, ma anche che è necessario. Gli incarichi si succedono in modo regolare e senza intoppi, finché una domenica, 9 gennaio 1944, accade qualcosa di insolito Deve raggiungere i compagni. Nel cuore della notte si muove come un’ombra tra le pietre del Carso.

All ‘ improvviso un rumore. Si accovaccia dietro un masso. La luna è alta, ma le foglie scure dei rami creano un riparo naturale. Le mani stringono con forza le cinghie dello zaino. Tutto è un potenziale pericolo. Ogni fruscio la costringe a trattenere il respiro. Sente dei passi che si avvicinano. La terra sotto i piedi vibra leggermente, o forse sono le mani che tremano. Le SS pattugliano la zona, e ogni rumore è amplificato dal silenzio della montagna. Ondina trattiene il respiro, stringendo il cinturino della borsa sulle spalle come se fosse un’ancora. Aspetta. È meglio che l’oscurità la protegga ancora un po’. Il freddo dell’umidità le penetra nelle ossa. Il battito accelerato del cuore la tiene sveglia. “Devo arrivare, devo riuscirci”, si ripete. 

Quando i passi si allontanano, riprende a correre. Ogni sasso che rotola sotto le sue scarpe logore è una minaccia. Finalmente raggiunge il rifugio: una grotta nascosta, dove Giuseppe, il comandante,la aspetta con lo sguardo duro ma grato. “Sei stata brava,” dice, aprendo lo zaino. Dentro ci sono istruzioni che guideranno i partigiani a sabotare un convoglio tedesco.

Dopo quattro mesi da staffetta partigiana, Ondina si trova di fronte a una svolta che cambierà tutto. 

È l’11 febbraio 1944, una giornata apparentemente normale a Vermegliano, un piccolo borgo vicino a Monfalcone. La luce tenue del mattino invernale illumina appena la stanza. La ragazza in quel momento si sente vulnerabile, più giovane dei suoi diciotto anni. Lo zaino è davanti al lei, pieno di materiali da portare ai partigiani. La mente è concentrata sulla missione ma tutto cambia in un attimo. Il rimbombo di stivali pesanti che percuotono il suolo è inequivocabile. La paura la immobilizza. Un colpo secco. La porta si spalanca, e uomini delle SS irrompono nella stanza. Uniformi scure, volti duri, fucili puntati, ordini incomprensibili vomitati addosso alla staffetta. Ondina si irrigidisce, il cuore martella nel petto. Non capisce come sia possibile. Quella missione era segreta. Nessuno avrebbe dovuto sapere. Chi mi ha tradito?”, si chiede, stringendo i denti per non lasciare trapelare la paura. Non ha tempo per eventuali risposte. Le afferrano il braccio e la trascinano via, senza alcuna pietà. È solo quando incrocia lo sguardo di sua sorella, Santina,nascosta dietro un angolo della piazza, che comprende. L’incredulità si mescola al dolore.

Viene condotta al comando di piazza Oberdan, a Trieste.

Le mani di Ondina tremano mentre viene legata alla sedia. Il comandante delle SS la guarda in modo penetrante e cattivo, come se avesse già letto dentro di lei i segreti che nasconde. L’interrogatorio inizia: Chi sono i tuoi compagni? Dove si nascondono? Il tono dell’uomo è tagliente, minaccioso. Lei stringe i denti mentre ogni parola la colpisce come un pugno. È giovane, troppo giovane per affrontare ciò che – lo sa bene- potrebbe accadere. Le mani sudate afferrano i bordi della sedia, cercando un punto di ancoraggio. Teme le torture più di ogni altra cosa: il dolore fisico, l’offesa, il rischio di non essere abbastanza forte da resistere. “Non dirò niente”, pensa, mala paura è un peso sempre più greve. Altri ufficiali si avvicinano, parlano tra loro e, anche se lei non conosce il tedesco, dalle occhiate che le lanciano capisce che sono sfrontati e che stanno giocando sulla fragilità di una giovane donna. Un uomo afferra un bastone, Ondina lo guarda, il respiro bloccato, le lacrime che vorrebbe trattenere. È sola. Sola contro un potere che la schiaccia, contro uomini che la vedono solo come un nemico da distruggere. 

Eppure, anche nella disperazione, qualcosa dentro di lei si accende. Un pensiero, una forza invisibile: ogni parola che trattiene è un compagno salvo. Il silenzio è una vittoria contro i nazisti. 

Non cederà. Non farà nomi.  No, la partigiana Peteani non tradirà.

Quando la riportano nella cella, Ondina sente il peso del proprio corpo martoriato. Ciò che brucia di più è l’umiliazione subita, ma promette a sé stessa che sarà più forte del loro odio. 

Poi arriva il viaggio. Nel buio soffocante del vagone bestiame che la trasporta ad Auschwitz, Ondina si aggrappa alla memoria della sua casa, dei sentieri che un tempo percorreva libera. Il viaggio è un incubo di oscurità, di corpi compressi e pianti sommessi, rotti solo dal rumore delle rotaie. 

Quando il treno si ferma, il freddo la colpisce appena mette piede a terra. Il filo spinato di Auschwitz le si staglia davanti, spoglio e minaccioso. E il fumo si alza in lontananza

Le SS le tatuano sul braccio il numero 81672. Non è più un nome, non è più una ragazza: è un codice in un luogo dove tutto mira a distruggere l’umanità. Ma Ondina resiste. Ogni giorno, tra i campi, le sue mani ferite trasportano pietre. Ogni passo è un tormento, ma nella mente si ripete: “Non mi spezzerete. Non vincerete.” Trova il modo di sabotare: rallenta il lavoro, condivide informazioni, alimenta fiammelle di speranza tra i prigionieri. Una scintilla di umanità in mezzo all’orrore.

Poi torna la luce.  È un giorno di aprile del 1945. Durante una marcia forzata di cinque giorni Ondina non si lascia sfuggire un’occasione, Insieme a un piccolo gruppo di donne, approfitta del caos e riesce a fuggire. I passi sono incerti, le forze allo stremo, ma la volontà di vivere è incrollabile. Attraversano boschi, campi e villaggi. Percorrono oltre 1300 chilometri, affrontando la sete e la fame. Ondina arriverà a Trieste solo a luglio del 1945. 

Cammina per le strade, il fisico consumato ma lo spirito indomito. Ogni pietra del selciato le ricorda ciò che ha perso e ciò che ha guadagnato: la libertà. In quel buio senza fine, il suo coraggio ha fatto la differenza.


L’AUTRICE

Nata a Benevento, dopo gli studi liceali ha conseguito la laurea in Lettere Classiche all’Università degli Studi di Pisa. Si è dedicata alla docenza presso il liceo classico di Saronno (VA). Attualmente vive tra Benevento e Saronno.  Appassionata di Arte, Musica, Teatro e curatrice di spettacoli teatrali, ha tenuto numerosi corsi di Scrittura Creativa. Articolista per Sannio Matese Magazine, ha scritto svariati libri, pubblicati dal gruppo editoriale PubMe.

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