È da escludere l’esistenza di un dualismo nel Partito Democratico Sannita

 Nell’ultimo numero de L’Espresso, quello che è in edicola, il filosofo Massimo Cacciari ha scritto: “Congratulazioni anzitutto a Giorgia Meloni, prima donna a diventare, se lo vorrà, presidente del Consiglio in Italia. Si tratta di un exploit destinato a sciogliersi come neve al sole, analogamente ad altri dell’ultimo decennio, al Renzi del ’14, ai Cinque Stelle del ’18, alla Lega nazional-popolare di Salvini (del ’19 – ndr)?”. Senza aver messo il punto interrogativo, noi nel precedente pezzo, con altre parole, noi abbiamo espresso lo stesso giudizio. Non abbiamo detto però che Renzi, dopo quattro anni, ha portato il Pd dal 41% conquistato alle europee del 2014 al 18,7% delle politiche del 2018, perché nel voto del 2018 c’era stato il ringraziamento di una parte dei dieci milioni di italiani che, avendo un reddito lordo annuo non superiore ai 25mila euro, ha beneficiato di un abbuono di 80 euro sull’Irpef, così come il Pci, alle europee del 17 giugno 1984, divenne primo partito con il 33,3% rispetto al 33% della Dc,  perché al Pci era stato dato un voto di condoglianze  per la morte di Enrico Berlinguer avvenuta a Padova l’11 giugno 1984.

Il Pd, il 25 settembre scorso, ha conquistato il 19,6% dei voti, uno 0,9% in più rispetto al 2018, ma mentre, nel 2018, c’era ancora Renzi nel Partito, ora c’era Articolo Uno di Bersani e di Speranza, una formazione, quest’ultima, che pressappoco, nei sondaggi, si eguagliava con Italia Viva di Renzi.

  Il voto dato a questi due partiti ( Pci e Pd), in tali circostanze, non è stato un voto politico, anche perché, per le elezioni europee, gli italiani sanno che non sono chiamati ad eleggere il Parlamento italiano, le cui scelte, a seconda della maggioranza che ne scaturirà, si riflettono su di loro.

  Il 34,26% dato alla Lega, alle europee del 2019, è stato invece di natura politica, poiché Salvini, sia nelle politiche del 2018, quando la Lega ottenne il 17,4% dei voti, sia nel 2019, quando ottenne appunto il 34,26%, risalendo ancora nei sondaggi sino al 36-37%,  in quanto, come ministro degli Interni, bloccava le navi di immigrati nel Mediterraneo per impaurire gli italiani sull’emergenza immigrazione, una emergenza che non c’è, semmai ci sia stata allora.

   Poi, montatasi la testa, nell’agosto 2019 ha pensato pure di mettere in crisi il governo giallo verde di cui faceva parte, pensando che sarebbero state sciolte le Camere e che, con le elezioni anticipate, gli si sarebbero aperte le porte di Palazzo  Chigi.

    Ma, poiché si è costituito, allora, nel settembre 2019, un altro governo tra Cinque Stelle, Partito Democratico e LeU (Liberi e Uguali), Salvini si è trovato fuori, malgrado tutti i tentativi posti in essere per salvare il governo di cui aveva fatto parte.

    Si è dedicato così alle elezioni regionali dell’Emilia Romagnasvoltesi il 26 gennaio 2020. E nonostante la “complicità” dei sondaggisti, che, due giorni prima del voto, diedero per vincente Lucia Borgonzoni, la sua candidata, il responso delle urne attribuì, invece, il 51,42% a Stefano Bonaccini e il 43,63% alla Borgonzoni.

    Così, incomincia il declino di Salvini, un declino che alle recenti elezioni del 25 settembre, inchioda la Lega all’8,77%, esattamente la metà di quel 17,5% ottenuto alle politiche del 2018. Un po’ più della metà, rispetto al 14% del 2018, lo ha conseguito Forza Italia, ottenendo l’8,11%. 

    Tuttavia, Lega e Forza Italia non si ritengono sconfitti, perché, come i loro alleati, i Moderati di Lupi e Toti fermatisi allo 0,89%, faranno parte del governo a guida Fratelli d’Italia, un governo che, con il 43.31%, depurato dello 0,89% che non viene preso in considerazione, dispone di 235 deputati e di 112 senatori, nonostante sia minoranza nel paese. Ma, la coalizione di centro destra ha conseguito quelle maggioranze grazie a una legge elettorale, voluta da Rosato nel 2018, pensando di far vincere allora il Pd di Renzi nei collegi uninominali, una legge che, votata anche da Forza Italia e Lega, ha fatto vincere, allora come ora, la coalizione di queste due formazioni insieme a Fratelli d’Italia, al Nord, e i Cinque Stelle, soltanto allora, al Sud.

     Certo, Lega e Forza Italia potranno dire che, nelle politiche del 2013, grazie al Porcellum, il Pd, avendo avuto come alleati Sinistra Ecologia e Libertà, il Centro democratico e la SVP (una coalizione che ha totalizzato il 29,5% contro il 29,1% totalizzato dalla coalizione di centro destra), ha avuto il premio di maggioranza. Ma quella legge elettorale, firmata dal leghista Calderoli, fu voluta da Berlusconi, perché nel 1996 la coalizione di centro destra non ebbe la maggioranza nei due rami del Parlamento, anche se, dalla conta dei voti riportati da ogni formazione facente parte della coalizione di centro destra, questa coalizione aveva avuto invece la maggioranza. 

     La coalizione di Berlusconi, però, con il Porcellum ha perduto due volte su tre, e quella volta che ha vinto, nel 2008, avrebbe vinto con qualsiasi altra legge elettorale, perché la sua coalizione sfiorò il 50% dei voti. Il Rosatellum, invece, nel 2018 e nel 2022, ha favorito Lega e Forza Italia, perché queste due formazioni hanno avuto una rappresentanza parlamentare sproporzionata rispetto al numero dei voti da ognuna di esse conseguiti. E proprio perché favorisce queste forze al Nord (Fratelli d’Italia invece è risultata meno rappresentata in Parlamento rispetto ai voti conseguiti poiché le candidature ora sono state fatte rispetto ai risultati conseguiti, da ognuna delle tre formazioni, nel 2018), è da escludere, quindi, che le pressioni delle opposizioni, per cambiare il Rosatellum, avranno successo.

     E considerato che nei collegi uninominali vince il candidato che consegue la maggioranza relativa dei voti, Enrico Letta avrebbe dovuto mettere da parte ogni dissapore nei confronti dei Cinque Stelle, ritenuti responsabili, a ragione, della caduta del governo Draghi, provocando lo scioglimento anticipato di 6 mesi delle Camere e la conseguente indizione delle elezioni, per dar vita, almeno con essi, alla formazione del cosiddetto campo largo che, alla luce dei risultati, sarebbe stato vincente proprio perché si sarebbe attribuito la stragrande maggioranza del collegi uninominali.

     Ora Letta, è consapevole di aver portato il Pd ad una percentuale superiore soltanto di un punto rispetto a quella conseguita da Renzi nel 2018, quando il Pd si posizionò di 7 punti al di sotto del 25,4% conseguito nel 2013.

   Da noi, nel Sannio, la situazione è andata ancora peggio, perché, rispetto al 15,41% conquistato dal Pd nel 2018 per la Camera dei Deputati,  ora, in rapporto a quel risultato già deludente, c’è stato un calo del 2,47%.

   La responsabilità è riconducibile, oltre che alla non costituzione dell’alleanza con i Cinque Stelle, alla più grande esportazione di candidati in Campania, posta in essere da Enrico Letta, una esportazione che ha demotivato molti dei potenziali elettori campani del Pd a recarsi ai seggi, sapendo che il loro voto avrebbe consentito la elezione di candidati, sebbene di prestigio, non del territorio. 

   Susanna Camusso, la ex segretaria nazionale della CGIL, catapultata da Sesto San Giovanni nel collegio plurinominale per il Senato di Campania 2, ha certamente sottratto la candidatura a qualche esponente locale del Pd, magari a Umberto Del Basso De Caro, costretto a rinunciare alla candidatura uninominale per il senato nel collegio Benevento-Avellino, ritenuto, e rivelatosi, non contendibile rispetto al centro destra. Parliamo di un deputato che ha ben meritato, nella precedente legislatura, per i molti fondi che ha fatto erogare, come sottosegretario alle Infrastrutture, per la realizzazione, nel Sannio, di importanti opere infrastrutturali. 

   

Ma, come abbiamo scritto nel precedente pezzo, il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ha

consentito tale imponente esportazione di candidati Dem (a lui evidentemente interessava solo la rielezione del figlio Piero), ottenendo in cambio la caduta di diverse teste, compresa quella di Del Basso De Caro, che De Luca ha combattuto anche, particolarmente, nelle elezioni comunali di Benevento del 3 e 4 ottobre 2021, quando ha sostenuto la rielezione di Clemente Mastella a sindaco, avendo consentito la presentazione, da parte di persone del Pd, ora messe fuori dal Partito, di una lista collegata alla coalizione di Mastella sindaco, una lista che si è rivelata determinante per la rielezione di Mastella, anche se va precisato che una qualsiasi altra lista, degna di questo nome, collegata a Mastella si è rivelata determinante, avendo Mastella superato il 50% soltanto di 787 voti, nel ballottaggio.

    Ma va pure precisato che gli ex Dem, che hanno dato vita a quella lista, nelle primarie del 3 marzo 2019 si erano schierati in sostegno di Zingaretti, portando a quello che sarebbe stato il neo segretario del Pd un magro 30%, mentre De Luca, come pure la federazione del Pd di Benevento, sosteneva il candidato renziano Maurizio Martina, per la segreteria nazionale del Partito, e un suo candidato, Leo Annunziata, contrapposto a Del Basso De Caro,per la carica di segretario regionale dello stesso Pd.

    Ora, però, nelle politiche scorse, Mastella, avendo presentato, soprattutto in Campania, liste del suo Partito, Noi di Centro, non ha ricambiato il favore a De Luca. E il governatore della Campania si è trovato contro anche quei non più Dem, i quali, raccogliendo il suo invito, avevano presentato una lista in sostegno di Mastella. Infatti, se la presenza di Raffaele Del Vecchio, l’animatore, anche se non da candidato, di quella lista,  alla conferenza stampa del primo settembre in cui Mastella ha presentato i candidati del suo partito, non era di osservatore, si deve ritenere che il competitore di Mastella del 2016, sia stato un supporter di Noi di Centro, insieme al vice sindaco, Francesco De Pierro, un altro ex Dem, che avrebbe sostenuto apertamente la candidatura, all’uninominale per la Camera, della signora Sandra, la consorte di Mastella.

    Inizialmente, tutti i mastelliani, compreso il segretario provinciale di Noi di Centro, Carmine Agostinelli, attribuivano alla signora Sandra grandi possibilità di successo. Ma, evidentemente, il partito dei sindaci a chilometro zero, come lo aveva definito Mastella, si sarà un po’ disgregato nel Sannio, altrimenti questo consistente numero di primi cittadini avrebbe certamente portato al successo la signora Sandra.

   Quando, però, Mastella ha cominciato ad avere contezza di ciò, ha iniziato a dire,  in prossimità del voto, che la elezione della moglie non era una ossessione, sicché egli avrebbe continuato a dedicarsi alla città di Benevento, ammesso che vi si sia dedicato da quando ne è sindaco.

    Ma, mentre faceva tali affermazioni, il pomeriggio del 24 settembre, in pieno silenzio elettorale, ha postato, sulla pagina“Clemente Mastella sindaco”, questa dichiarazione: “La destra di Salvini e Meloni continua a fare appello al voto. Dico ai miei amici, ai sanniti di BN e del Matese: respingete il loro assalto ai nostri territori. Il giorno dopo averci invasi, arrivando come cavallette politiche dal centro nord, ci lasceranno soli. Faccio appello alle donne, agli uomini, ai giovani. Alzate la testa e con orgoglio votate  il partito che è di BN, che ha un leader nel Sannio, che ha sempre difeso il territorio sannita (!). Ognuno recuperi mezzo voto e ce la faremo anche questa volta. Votate Lista Mastella, Noi Di Centro. Noi siamo eredi dei Sanniti e dei Longobardi, popoli fieri. Non passeranno le cavallette politiche. No, no. Viva il Sannio”.

    Poi, nel comizio di chiusura della campagna elettorale a Ceppaloni, la signora Sandra ha usato “toni fortemente aggressivi, offensivi e volgari con i quali ha descritto” Claudio Cataudo e la rispettiva personalità, un ex mastelliano, ora consigliere provinciale di Forza Italia e candidato di questo partito nelle recenti elezioni. Cataudo, “rimasto letteralmente basito” da questo comportamento della signora Sandra, ha rassegnato le dimissioni da vice sindaco di Ceppaloni, una carica evidentemente avuta in funzione della sua candidatura nella lista mastelliana. 

    Ma De Luca, che non ha avuto alcuna riconoscenza da Mastella, aveva cominciato a “combattere” il Pd sannita già nelle elezioni regionali del 2020, quando favorì, come abbiamo scritto dianzi e nel precedente pezzo, la presentazione di una lista, in suo sostegno, da parte del nominato Raffaele Del Vecchio, che sottrasse voto al Pd, il cui elettorato votò De Luca senza tentennamenti, e favorì altresì la candidatura di altri 4-5 esponenti di rilievo del Pd sannita in liste a lui collegate, al solo fine di indebolire la lista del Pd, al punto da mettere in discussione l’attribuzione del seggio, che invece è stato attribuito a Erasmo Mortaruolo, sostenuto, anche e soprattutto in questa occasione, da Del Basso De Caro, come ha dichiarato, nei giorni scorsi, Fausto Pepe, già sindaco di Benevento nel decennio 2006-2016 e attuale vice segretario provinciale del Pd, nell’intervista resa al Mattino.

    Ora, però, Erasmo Mortaruolo, è venuto allo scoperto manifestandosi deluchiano anche a Benevento, insieme ad Antonella Pepe, presidente provinciale del Pd dal congresso di febbraio 2022, che ha combattuto quel disegno di De Luca nella campagna elettorale regionale del 2020 e che, nelle scorse politiche, ha preso il posto (diremmo inspiegabilmente per non fare il nome di chi, secondo noi, ha compiuto l’operazione) di Angelo Moretti,  il consigliere comunale di Benevento e massimo esponente di Civico 22 che l’assemblea provinciale del Pd, nella seduta del primo agosto scorso, aveva candidato alla unanimità nel collegio uninominale per la Camera dei Deputati nel collegio uninominale Benevento-alto Casertano. Il Pd, per calare dall’alto la candidatura di Antonella Pepe, ha rinunciato ai voti (dai 3.000 ai 4.000) che avrebbe portato Angelo Moretti.

    Ora, questa componente deluchiana del partito, sta venendo allo scoperto, anche con iniziative pubbliche, come la conferenza stampa, tenuta da Antonella Pepe, il 27 settembre nel bar di Palazzo Paolo V e non nella sede del Partito, e come l’incontro tenuto, il 3 ottobre nel DG Garden di contrada San Chirico, su convocazione di Erasmo Mortaruolo.

    In quell’incontro abbiamo contato un cinquantina di partecipanti, singole persone convocate da duo deluchiano, se si eccettua la presenza dei candidati Angela Ianaro, Carlo Iannace e del deluchiano di ferro, Stefano Graziano, neo parlamentare eletto con la predetta legge elettorale, una legge peggiore di quella del Porcellum e di quella del Mattarellum, leggi che, da 30 anni, impediscono ai cittadini la possibilità di scegliere gli eletti con la espressione della preferenza:  ma tra le persone di rilievo in quell’incontro, c’erano anche Giovanni Zarro, più volte deputato della ex DC, e Carmine Nardone, il presidente della Provincia, più volte deputato dei post comunisti, il quale, trascorsi i due mandati alla Rocca dei Rettori, nel 2011, si è candidato a sindaco di Benevento, con una coalizione ibrida, in contrapposizione alla coalizione guidata da Fausto Pepe, il candidato sindaco del Pd, risultato poi riconfermato alla carica di primo cittadino.

    Il Pd è rimasto impassibile rispetto a quella scelta di Nardone, che ha continuato ad essere iscritto al Pd. Ma il Pd può permettersi questo ed altro, come l’aver consentito la presentazione di quella lista, diversa da quella ufficiale, in sostegno di De Luca, e la candidatura  di esponenti Dem di rilievo  in altre liste deluchiane, pur sapendo, il Pd, che sarebbe uscito indebolito dalle elezioni regionali, sebbene impostosi, allora, come primo partito in provincia di Benevento.

      Noi, a un certo punto abbiamo lasciato quell’incontro convocato dai deluchiani, perché avevamo da festeggiare il nostro compleanno. Ma, mentre ce ne andavamo, abbiamo sentito Graziano parlare di una certa ingratitudine manifestata, dopo l’insuccesso elettorale del Pd, nel confronti di Letta, che  nel gennaio del 2021 sarebbe stato scomodato, richiamandolo dalla Francia per fargli assumere la guida del Pd. Eppure, Letta, secondo Graziano, avrebbe migliorato di un punto la percentuale conseguita dal Pd nel 2018. Ma il 18,7%, conseguito nel 2018 era inferiore del 3,14% rispetto alle europee del 2018, celebratesi due mesi e mezzo dopo che Nicola Zingaretti era divenuto segretario del Partito.

      Anche a questo incontro, come nella conferenza stampa tenuta da Antonella Pepe, non era presente il segretario della Federazione del Pd, Giovanni Cacciano, nei confronti del quale Antonella Pepe e Erasmo Mortaruolo vogliono creare un dualismo.

      Staremo a vedere cosa succederà il 7 ottobre quando all’ Hotel il Molino si riuniranno gli organi ufficiali del Pd, su convocazione del segretario Giovanni Cacciano, il quale, al termine dell’invito, in cui vengono elencati i molti punti da discutere, ha precisato: “Con riferimento  all’odierno  evento del DG Garden, si precisa che è stato organizzato in assoluta autonomia da parte di alcuni candidati”.

Giuseppe Di Gioia

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