Vademecum semiserio dell’emigrante (seriale)
Ritorno, a distanza di svariati mesi, a mettere le dita su una tastiera.
Il Covid 19, nel mio caso, c’entra poco o nulla.
O, meglio, della impossibilità di avere tempo a disposizione per mettere nero su bianco qualche riflessione il virus non è né la sola ragione, né la principale.
È vero invece che questo coronavirus ha decisamente cambiato la percezione della ricerca e della virologia.
Questo è, come non mai, il momento dei virologi.
Riveriti, interrogati, ingaggiati, vezzeggiati, sono letteralmente dappertutto e in ogni momento.
Avercela dentro casa però, una virologa, porta con sé l’impossibilità di liberarsene anche solo per qualche momento – fingendo, almeno per un poco, di vivere di nuovo in un mondo dove un colpo di tosse è solo un colpo di tosse – e l’obbligo, quando la ricerca chiama, di prepararsi a cambiare di nuovo paese.
Armi, bagagli, figlie, animali e mobili al seguito.
Ed è così che, nel bel mezzo di una alquanto spaventosa crisi sanitaria globale ci siamo ritrovati a salutare la quiete della campagna inglese che aveva visto la nascita della nostra seconda figlia – la prima è venuta alla luce nel vivace trambusto di Lione, la terza città di Francia – e ad abbracciare la frenetica vitalità di Basilea – cittadina svizzera piuttosto atipica, multiculturale e “science friendly”.
Scrivo, dunque, per dar voce ad una speciale categoria di emigranti che non rientra in nessuna statistica, che non ha un nome e che ha come caratteristica peculiare quella della pressoché totale invisibilità: la categoria degli “emigranti seriali”.
Se da una parte è noto a più o meno chiunque il fenomeno dei cosiddetti “cervelli in fuga”, nessuno mai, da nessuna parte, ha speso due parole per coloro i quali i cervelli in fuga sono costretti a (in)seguirli.
I governi italiani degli ultimi trenta anni andrebbero biasimati due volte. Una volta per il fatto di continuare a dilapidare da decenni milioni e milioni di denaro pubblico in istruzione e formazione di intelligenze che vengono poi messe a frutto altrove.
Una seconda volta per non aver nemmeno mai preso in conto l’enorme spreco di capitale umano connesso all’emigrazione di tutta quella forza lavoro che i cervelli in fuga si tirano dietro – ovvero di tutte quelle persone che, come il sottoscritto, pur non avendo un cervello degno di rientrare nel novero di quelli considerati in fuga, ha comunque quanto basta per essere considerato, dovunque altrove fuori dal Bel Paese, forza lavoro preziosa.
E ancora maggiore dovrebbe essere il secondo biasimo perché in nessun conto è mai stata tenuta quella peculiare capacità sviluppata dall’emigrante seriale di rimettersi ogni volta in gioco in un mercato del lavoro totalmente nuovo e diverso.
A differenza del cervello in fuga i cui spostamenti, infatti, corrispondono alla firma di un nuovo e più vantaggioso contratto, gli spostamenti dell’emigrante seriale ricordano piuttosto le fatiche imposte a Sisifo per aver osato sfidare gli dei.
All’antico personaggio del mito il masso rotolava giù dall’altra parte ogni volta che era faticosamente riuscito a portarlo sulla cima del monte.
All’omologo moderno tocca dare le dimissioni dal lavoro tanto faticosamente acciuffato per poco che aveva cominciato ad abituarsi alla relativa stabilità – e quando la relativa stabilità poggiava su un contratto a tempo indeterminato la somiglianza della figura dell’emigrante seriale e del sagace Sisifo diventa indigesta sovrapposizione.
Altro parallelo: come per il personaggio del mito, anche per l’omologo moderno l’empatia da parte di chicchessia è dono raro, ricevuto quasi esclusivamente da chi in tutto o in parte condivide la medesima condizione.
Non so bene per quale strano processo della mente il trasferimento in un nuovo paese assume, nelle fantasie di parenti e amici, i contorni del viaggio di piacere.
Cosa ci sia di piacevole nel dover rinchiudere tutti i propri averi (quelli non alienati allo scopo di ridurre al minimo possibile le costose spese di un trasloco internazionale) in scatoloni non troppo grandi, non troppo piccoli; cosa ci sia di gradevole nel dover programmare con mesi di anticipo la disdetta di una serie interminabile di utenze, nel pianificare con altrettanto anticipo un viaggio di sola andata da una casa vuota ad una altrettanto vuota e nel dire addio a tutto quanto (lingua, posti, abitudini, persone) appena divenute familiari, solo appunto la fantasia di parenti e amici che confondono la nozione di “villaggio globale” con quella di “villaggio vacanze” potrebbe spiegarlo.
Quale parallelismo ci sia tra il doversi districare in una nuova giungla di tariffe, offerte, contratti – magari per esser certi, come nel caso dell’assicurazione sanitaria, di non dover vendere un rene per pagare le cure del fegato – e lo sbrogliarsi nella selva di offerte di hotel e case vacanza è ancora fonte di mistero per il sottoscritto.
Appartiene al campo dell’inesplicabile cosa accomuni l’impresa di ordinare un piatto locale in una sconosciuta lingua esotica – lingua che delizierà le trombe di Eustachio per non più di una quindicina di giorni negli anni buoni – a quella di affrontare a tempo indefinito la burocrazia di un paese che utilizza parole lunghe come treni merci.
Sempre per il sottoscritto.
È avvolto dalle nebbie del mistero il perché al racconto delle ambasce di una famiglia che, nel paese in cui vive da meno di un mese, in tempi di Covid, tocca lasciare una bimba di pochi mesi in mani estranee (certo, mani impiegate in un nido costoso come un hotel cinque stelle!) venga in mente di replicare col dettagliato resoconto delle ambasce di una famiglia che in tempi di Covid ha affrontato le lacrime di un bambino di quattro anni che, abituato al mare, è stato terrorizzato dall’acqua dolce di una piscina.
Ancora una volta per il sottoscritto.
In uno dei tanti traslochi fatti mi sarò perso il senso dell’umorismo.
Ma, intrappolato nella kafkiana situazione di aver potuto (come in ogni altro paese del mondo) comprare un’auto e non averla ancora potuta immatricolare perché in alcuni cantoni svizzeri (tra cui, ovviamente, quello nel quale siamo) per avere le targhe è necessario avere prima i permessi di soggiorno (il cui rilascio in tempi di Covid ha assunto tempistiche bibliche) non mi mette “di buzzo esattamente buono”.
E alle battute sugli italiani che vivono in svizzera – che nell’immaginario dello “stanziale con l’attitudine al viaggio di piacere intercontinentale”, amico di vecchia data generalmente lodato per le sue doti intellettive sono ancora tutti simili al personaggio del noto film di Verdone – avrei preferito, anche un semplice e desueto “come va?”.
Anche solo in considerazione della peculiarità degli eventi personali nel quadro di completa anormalità della situazione mondiale!
E però, perché mai allo stanziale con l’attitudine al viaggio di piacere intercontinentale il racconto delle annuali peripezie con le finanze pubbliche francesi – che come ogni anno da quando abbiamo lasciato l’esagono passano dalla minaccia di sanzioni alle scuse per non aver ancora registrato l’evento – dovrebbe suggerire una situazione diversa dal dilemma della scelta per il bar con l’apericena più ghiotta.
Perché mai dovrebbe apparirgli faticosa l’impresa di dover trimestralmente spiegare al servizio sanitario inglese che le obbligatorie vaccinazioni agli infanti in età scolare vengono effettuate ai figli della République prima del secondo anno di vita, a lui che deve, alla bisogna, misurarsi con il muro di gomma del sistema sanitario italiano – e su questo magari si può concedere che dovunque altrove sia più semplice che in Italia.
Ad ogni modo, a tutti quelli che ascolteranno frasi del tipo “In Francia si vive bene, mi sono innamorato di Parigi sin dal primo giorno di vacanza” e che come noi si ritroveranno a 700 km di distanza dalla capitale; a quelli che “oh che bella l’Inghilterra, i tre giorni a Londra dello scorso anno sono stati magnifici” e che le peculiarità caratteriali dei sudditi di Sua Maestà dovranno sorbirsele per 365 giorni all’anno; a quelli che “la Svizzera è favolosa e poi è vicina a casa” e come noi necessiteranno di quattro ore di auto per raggiungere il confine italiano da una delle cittadine meno tipicamente pulite e ordinate dell’Elvezia, mi permetto di proporre un piccolo vademecum semiserio sulle cose da mettere in valigia nel caso in cui si sia costretti a vestire i panni dell’emigrante (seriale).
La caparbietà.
La caparbietà è, dopo l’abbigliamento intimo e prima delle capsule di Gaviscon, la prima cosa da mettere in valigia nel momento in cui si comincia a pensare di indossare i panni dell’emigrante (seriale).
Già prima del Covid l’eldorado del lavoro era solo un mito. In tempi di pandemia, praticamente non esiste paese che non abbia sperimentato una contrazione più o meno importante del mercato del lavoro.
Che, per conseguenza, è diventato ancora più competitivo ed esigente.
Il cugino, l’amico, il parente che raccontano di posti di lavoro offerti al primo che passa o parlano di lavori massacranti e scarsamente remunerati – dappertutto bisogna rapportare il livello di retribuzione a quello del costo della vita – o cercano disperatamente di attirare qualcuno di familiare con cui condividere match sportivi e allegre bevute.
Le difficoltà, inoltre, si annideranno in ogni angolo della quotidianità ed esattamente in tutti quei posti, quei frangenti, quelle occasioni che nella città d’origine avrebbero trovato soluzione grazie all’amico, al parente, al conoscente, all’amico dell’amico e via allontanandosi nel grado di una prossimità che potrebbe arrivare fino alle alte sfere vaticane.
La resilienza.
Mai partire senza.
Mai affrontare un nuovo inizio in un nuovo paese senza avere a disposizione una consistente dose di resilienza.
Ma consistente davvero.
Lingua a parte, ogni nuovo paese, anche se è quello giusto al di là del confine nazionale, presenta differenze non trascurabili che potrebbero mettere a dura prova le motivazioni del più convinto degli emigranti (seriali).
Con ripercussioni a catena sulla vita familiare impossibili da enumerare ordinatamente.
Leggi inverosimili, abitudini discutibili, regolamenti surreali non faranno altro che urtare la suscettibilità di chi, all’uscita dall’Ufficio Complicazioni Affari Semplici ha almeno sempre saputo di poter contare sul conforto della buona tavola e dell’allegro vivere – due delle cose che, varcate le Alpi, non è poi così scontato trovare.
La motilità. Quella capacità degli organismi di modificare attivamente e in maniera reversibile la propria posizione o quella di una loro parte rispetto all’ambiente circostante è un’altra imprescindibile qualità che bisogna assicurarsi di avere in valigia.
Solo nella canzone di un famoso rapper i napoletani trasformano il mondo in una grande Napoli.
Nella realtà, il rischio di scontrarsi con ambienti, organizzazioni, sistemi decisamente lontani da quelli che si è in grado di tollerare senza un buon grado d motilità è piuttosto alto.
La capacità di lasciar roteare gli ammennicoli senza arrecare danni permanenti al sistema riproduttivo andrà costantemente esercitata pena, anche in questo caso, ripercussioni sulla vita familiare impossibili da enumerare ordinatamente.
Varie ed eventuali.
Una buona memoria – per non dimenticare di mandare a quel paese tutti quelli che dall’alto del lavoro sicuro assicuratogli da papà, mamma, zio, cugino, nonno, santo in paradiso o amico di famiglia gli ricorderanno quanto è bello vivere fuori dall’Italia.
E come è dura vivere intrappolati nello stivale.
Al Sud soprattutto.
In Campania specialmente.
A Benevento peggio ancora.
Tanta immaginazione – per non cedere alla tentazione della razionalità che sconsigliando sempre la strada nuova tenderà a tenere inchiodati a quella vecchia.
Tanta, tanta, tanta curiosità – che è meglio sia una seconda pelle.
Una buona conoscenza dell’inglese – quella che ti permette di affrontare un colloquio di lavoro, non quella che consente di chiedere dove si trova il più vicino ristorante italiano.
La conoscenza di qualche altra lingua è sempre apprezzata.
Una qualifica veramente spendibile sul mercato del lavoro aiuta tanto lo dico da laureato in filosofia, titolo spendibile sul mercato del lavoro internazionale quanto l’imitazione di un biglietto falso, fuoricorso da un decennio.
E delle “skills” reali – non la millantata capacità di guidare una delegazione diplomatica solo perché l’anno precedente si è usciti vincitori dalla contrattazione di una tariffa più vantaggiosa col tassista metropolitano di turno.
A chiunque avesse bisogno di un vademecum più ampio, consigli o solo sostegno, lascio in calce (si fa per dire) il mio indirizzo mail.
Massimo Iazzetti