I beneventani e la sindrome di Stoccolma
L’ultimo articolo lo avevo concluso scrivendo che Benevento è una città in ostaggio.
Questo lo apro sostenendo che i beneventani sono ammalati.
Il coronavirus, fortunatamente, non c’entra nulla.
I beneventani soffrono invece, e da tempo, di una condizione meno pericolosa ma più subdola: la sindrome di Stoccolma.
Vittime di un accertato, diffuso quanto profondo stress psicofisico derivante da un più che decennale sequestro da parte di una amorale, familistica e famelica casta di politicanti, hanno ultimamente abbandonato qualsiasi ambivalenza nei sentimenti che li legano al proprio carceriere per affidarglisi anima e corpo (mani e piedi, sarebbe meglio dire) senza più alcuna remora.
La sottomissione è ormai un dato di fatto, l’annichilimento è acclarato.
Non si spiega altrimenti la pressoché totale acquiescenza nei confronti dei capricci, delle stravaganze del primo cittadino – esattamente come nel comportamento osservato nei sequestrati della Sveriges Kreditbanken di Stoccolma nel 1973 – nella convinzione, evidentemente, che “la fuori” non ci sia personaggio più adatto del ceppalonese a sedere sulla poltrona di sindaco di Benevento.
Aiutati, nel complesso meccanismo della negazione della situazione che è alla base della sindrome, dalla provata efficacia di alcune classiche armi di distrazione di massa – i successi del Benevento calcio, e gli aromi della gastronomia locale e ora anche il panico da pandemia – i sequestrati sono talmente a loro agio in questa drammatica situazione amministrativo-istituzionale da trovare una sorta di consolazione nella rassegnata convivenza invece di chiedere elezioni a gran voce.
All’attuale carceriere bisogna dare però atto di una provata esperienza nell’arte del “portare la vittima a sentirsi al sicuro all’interno di una situazione drammatica” (la definizione, in merito alla sindrome, è tratta dal sito tragicomico.it!)
La fine del discorso con il quale ha accompagnato la “revoca delle dimissioni irrevocabili” è a suo modo un capolavoro:
«Non ho, oltre mia moglie, altri parenti in città e quindi oggi la mia famiglia è la città di Benevento ed è ad essa che dedico l’ultimo sprazzo della mia vita politica ed umana».
E ancora, tenendo fede ad una cifra stilistica mai dismessa che lo porta a blandire ora il sacro, ora il profano, ora i bambini, ora le categorie svantaggiate più a portata di mano: «Sono tornato indietro sulla mia decisione, ha detto, per i miei nipotini che sono tutti i piccoli della città, non avendo qui i figli dei miei figli.
Sono stati in tantissimi a scrivermi: Sindaco non ti dimettere ti vogliamo con noi e ti vogliamo bene».
Come non rimanere ammaliati, intrappolati nel malsano legame all’udire i fatti snocciolati con invidiabile sicumera – «l’illuminazione pubblica in città sarà rinnovata come quella nella Villa Comunale/ Siamo tra le poche città dove si aprono più prospettive di negozi e di attività./ Sul piano culturale Benevento è una tra le città più attrezzate e chi vuole più abbronzarsi ai raggi della cultura, da noi può farlo».
Con quale coraggio obiettare a questo pirata della politica che non teme cambiare idea dieci volte al giorno o spostarsi, con disinvolta maestria, da un opposto all’altro dell’arco politico – se ha ancora un qualche senso parlare di opposti in politica – che se ai 140 milioni di debiti ci si è arrivati grazie al suo caudillo.
Che se e quando arriveranno i 100 sbandierati come personale conquista, prima ancora di sapere se ci saranno vantaggi per la cittadinanza e quali saranno, saranno certamente una manna per chi, in cerca di rilancio politico, dovrà gestirli, impiegarli, distribuirli.
Un dato certo della sindrome di Stoccolma è che il rapporto tra vittima e carnefice viene ad instaurarsi non tanto sulla base del comportamento di quest’ultimo, quanto sulla base di ciò che egli potrebbe fare ma non fa.
Ed in questo senso le bizzarrie del ceppalonese – e i danni arrecati –potrebbero essere ancora lontane dal dirsi concluse.
In attesa che nell’angusta condizione di sequestrati affetti dalla suddetta sindrome si faccia spazio la consapevolezza della distanza che separa Benevento da Ceppaloni, l’interesse della comunità da quello del politico, il bene dei rappresentati dal tornaconto dei rappresentanti, l’auspicio è che, parafrasando Gennarino Carunchio, travolto assieme a Raffaella Pavone Lanzetti da insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, parta dal basso un (figurato) calcio in culo alla “bottana democristiana”.
Massimo Iazzetti