I meriti di Salvini, i demeriti del PD (ZTL). Quando la gauche caviar di provincia da il peggio di sé
Mettiamola così.
Le ragioni alla base dell’evidente successo politico dell’attuale ministro degli Interni – della Propaganda, secondo alcuni – sono certamente ascrivibili alla sua innegabile abilità.
Un animale politico, è stato definito – non nell’accezione aristotelica però.
Nulla di diverso sarebbe stato d’altro canto lecito attendersi dal politico più vecchio dell’attuale panorama italiano.
Ad onor del vero, potrebbero forse contarsi sulle dita di una sola mano (mutilata da un petardo di generosa potenza deflagrante) gli osservatori pronti a scommettere che quel giovanottone in camicia verde avrebbe un giorno trovato il modo di passare un vigoroso colpo di spugna su tutti gli improperi rivolti al Meridione e ai suoi abitanti, a Roma e alle sue istituzioni, alla Repubblica e ai suoi simboli.
E a formulare una proposta politica convincente per terroni, ultradestra, imprenditori, operai e disoccupati – pensionati, casalinghe, studenti e pure un nugolo di immigrati regolari desiderosi di far dimenticare il colore della propria pelle.
La realtà, a volte, va oltre la più fervida immaginazione.
A comprendere in quale modo lo stile padano sia infine riuscito ad ammaliare neo-fascisti e tardo-borbonici allo stesso tempo potrebbe essere d’aiuto una celebre metafora del subcomandante Marcos che nel voler descrivere le storture del moderno capitalismo raccontava come «nella corsa all’impazzata della locomotiva dello sviluppo, i vagoni di testa si sono staccati del tutto da quelli di coda».
Fatto ancor più vero in Italia, dove i vagoni di centro, quelli che facevano da trait d’union tra i primi e gli ultimi sono stati letteralmente polverizzati da una crisi che nessuno ha voluto o saputo governare – ma ancor prima da anni di incapacità, latrocini e spese folli.
I vagoni di testa sono progressivamente diminuiti di numero e corrono ora più leggeri che mai mentre gli ultimi, infine, quelli di coda, aumentati a dismisura, lasciati a se stessi, procedono da tempo a ritroso.
A Salvini va, se non altro, riconosciuto il merito di un invidiabile tempismo.
Il merito di aver saputo scegliere con cura il momento migliore per svestire i panni del secessionista e indossare quelli del nazionalista, dell’uomo forte, dell’uomo della Provvidenza che, in fondo, una nazione poco familiarizzata a dinamiche realmente democratiche ha sempre cercato sin dai tempi di Berlusconi.
E a ben guardare anche prima.
Ma se Salvini negli ultimi tempi – e in maniera probabilmente meno fugace degli attuali, meno scaltri, colleghi di governo, o contraenti di contratto che dir si voglia – ha potuto trovare campo libero per proporsi come portavoce pressoché esclusivo di quei tanti vagoni di coda che affollano il panorama dell’intera penisola, la ragione sta anche negli enormi demeriti del PD (ZTL).
È solo grazie al completo disinteresse di questa sorta di Partito Dell’élite per qualunque forma di disagio, per ogni tipo di difficoltà, per ogni genere di timore venga espresso poco al di là dei centri cittadini e dei salotti buoni, che il Matteo attualmente sulla cresta dell’onda può giocare, indisturbato, il ruolo del pifferaio magico.
All’altro Matteo, quello fiorentino, quello che traeva ispirazione dai dispositivi della mela morsicata, quello che ha voluto ridurre il lessico della politica italiana ai suoi minimi termini con formule quali rottamazione, 2.0, gufi e altre amenità del genere va tutto il demerito di non averla mai detta, qualcosa di sinistra, e di aver lasciato ai suoi epigoni solo le macerie di quanto aveva distrutto, assieme al suo cerchio magico, a colpi di retorica populista – strumento non esclusivo delle destre autoritarie, ma che queste padroneggiano in maniera nativa e decisamente più produttiva – e ammiccamenti liberisti.
Qualcosa si direbbe muoversi a livello centrale grazie al nuovo corso inaugurato dall’attuale segretario.
È in contesti come quello beneventano che si costruisce scientemente, pietra su pietra, il prossimo insuccesso del partito – e il disastro di una nazione che continuerà a consegnarsi, inerme, nelle mani di un illusorio, estemporaneo, anacronistico sogno nazionalista.
Alle inquietudini che agitano larga parte della cittadinanza beneventana in merito alla potabilità dell’acqua distribuita dalla azienda concessionaria del servizio il Partito Dell’élite risponde con abbondanti sette mesi di ritardo.
Che se almeno fosse servito ad accogliere le legittime richieste di trasparenza della cittadinanza ovvero ad elaborare una strategia per farsene portavoce, un tale lasso di tempo avrebbe se non altro avuto una qualche giustificazione.
Tutto questo tempo, che in politica equivale ad anni luce, è solo servito a preparare il palcoscenico alla rappresentazione del più macroscopico difetto imputato al PD.
Ad incarnare quella spocchia, quella saccenza che poco si cura dei problemi che affliggono i più – e, nello specifico, il problema in questione è anche alquanto interclassista nonostante principalmente avvertito in due dei rioni più popolari della città –, quell’atteggiamento elitario che porta il Carneade di turno ad ammannire, urbi et orbi, quanto avrebbe dovuto essere patrimonio comune e invece sa solo lui, è stavolta l’ingegnere Yuri Di Gioia.
Che agli astanti, formulando il quesito allo stesso modo in cui farebbe un genitore spazientito dalle tante, insistenti e circostanziate domande della propria prole su questioni quali l’esistenza e le abitudini alimentari degli unicorni, pone il quesito nudo e crudo: «ma veramente pensate che esista un’acqua pura al 100%?».
Immaginando che nessun beneventano abbia dato retta al buon Messner quando pretendeva altissima e purissima l’acqua da lui reclamizzata e che, nonostante ciò, l’accesso ad acqua microbiologicamente almeno accettabile resti un diritto, le risposte più adeguate le hanno fornite alcuni esponenti locali del partito ancora animati da qualche sparuto briciolo di buon senso e da più robusta cognizione di causa.
Beneventani, prima ancora che politici o aspiranti tali, alcuni dei presenti hanno provato, insomma, a dare un tono meno surreale all’incontro.
Persino un ex assessore all’ambiente, Castiello, non un tecnico né un “gigante” nel ruolo ricoperto ma nemmeno completamente estraneo alla materia, ha ricordato come Gesesa fosse solita miscelare le acque del Biferno a quelle dei pozzi in oggetto per abbattere l’alto livello di nitrati.
Perché un conto è parlare di unicorni e di acqua pura al 100%, cosa che a Benevento non è assolutamente in argomento.
Altro è parlare di pericolosi inquinanti cancerogeni chiedendo trasparenza e pubblica evidenza dei loro livelli che, quand’anche al di sotto dei livelli consentiti dalle leggi in vigore, potrebbero seriamente minare la salute della popolazione.
Corre poi l’obbligo di ricordare al borioso ingegnere che se non fosse stato per le circostanziate denunce della solita Altrabenevento, qualcuno avrebbe continuato a lucrare – indisturbato dall’amministrazione espressione del partito cui lui appartiene – a danno della salute dei bambini.
Che pure senza essere vittime di intossicazione alimentare, conservano intatto tutto il diritto di fare pasti degni della scuola di un paese civile.
Se nessuno avesse “aizzato” i genitori – il concetto di denuncia è evidentemente sviscerato ben lontano dalle facoltà di ingegneria – l’amministrazione targata PD avrebbe continuato a stare dalla parte dei gestori del servizio, non dei bambini e degli ammalati.
Perfettamente comprensibile, insomma, se a livello locale anche un dinosauro come Mastella abbia potuto così facilmente rendere credibile una narrazione che lo vedeva nelle vesti del nuovo che avanza, dell’uomo che spariglia il sistema che opprime la città.
E se a livello nazionale ci si sente più rappresentati da qualche ex secessionista padano che dall’ennesimo esponente della gauche caviar – l’unico tipo di sinistra ancora rinvenibile in Italia.
Massimo Iazzetti
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