Il regista Lambertini: “Un buon film deve trasmettere emozioni”
Lamberto Lambertini (nella foto) è un regista italiano nato a Napoli nel 1946. Iscrittosi alla facoltà di Medicina, si trasferisce prima a Parigi e poi a Londra, dove fa l’aiutante del pittore Lucio Del Pezzo. Al rientro in Italia, inizia a lavorare come grafico del Teatro Stabile di Roma per poi passare a fare il regista. Ha debuttato nel cinema col progetto “Diario Napoletano”, producendolo per la “Stella Film”. E’ stato anche autore e regista radiofonico.
Abbiamo incontrato Lambertini nel Palazzo del Governo di Benevento in occasione dell’inaugurazione dell’anno sociale della “Società Dante Alighieri” Comitato di Benevento, che ha dato inizio al suo programma culturale con la proiezione del film “In viaggio con Dante”, dello stesso regista. In questa
Come è nata l’idea del film “In viaggio con Dante”?
“E’ un’idea nata circa nove anni fa. All’epoca fui chiamato da Paolo Peruffo e Alessandro Masi, rispettivamente vice-presidente e segretario generale della “Dante Alighieri”. Avevano visto un mio film e mi dissero: <<Lamberto, perché non pensi a un’idea cinematografica per la “Divina Commedia”? L’ abbiamo fatta in tutti i modi, ma cinematografica mai. Però un’idea attuale, non un film con gli attori>>. E così, parlando parlando, ci è venuto in mente di fare per ogni canto un luogo diverso d’Italia. Quindi cinematograficamente un luogo, un artigiano, un mestiere, un museo, una galleria, delle bellezze particolari dell’Italia, per lo più sconosciute, ben riprese, mentre fuori campo l’integrale lettura del canto di Dante relativo a quel luogo”.
Qual è il segreto per girare un buon film?
“Oggi è molto più difficile di prima pensare di girare un film, perché oggi il pubblico non c’è più come prima. Quindi prima si poteva pensare di farlo commercialmente, oppure di farlo artisticamente, ma il pubblico stava lì, in attesa. Oggi i ragazzi non vanno a cinema, è tutto internet oppure televisione, ma i ragazzi non vedono neanche la televisione. Quindi fare un cinema significa fare un’opera d’arte, con la stessa libertà per me, perché il grande cinema sta in televisione. I grandi soldi, i milioni, li spendono lì. E’ inutile combattere contro la televisione per fare quello che un tempo era il cinema. Il cinema deve prendersi la sua libertà di fare l’arte, libero, per avere un pubblico magari ridotto, ma che sia un’ élite, come il museo che fa arte contemporanea. Perché poi il produttore pensa sempre di sapere la verità: facciamolo più comico così viene la gente, facciamolo più erotico così viene la gente, mettiamoci un po’ di sesso, mettiamoci un po’ di guerra. Invece il pubblico prende quello che riceve. Per me il pubblico vuole solo la verità. Allora l’unica ricetta per fare un buon film è fare una cosa vera, sentita da te stesso che lo fai. Il pubblico si accorge subito se c’è imbroglio o verità, se c’è furbizia o verità”.
Un buon film deve trasmettere sempre emozioni?
“Solo e sempre emozioni. Diciamo che un film potrebbe anche trasmettere un messaggio, ma non deve essere la regola né la prima cosa. Preferisco un film che comunichi e produca grandi emozioni, anche se non ci sono messaggi espliciti e chiari, né morali, né politici. Qualche volta è necessario. Poi se si usa un grande romanzo va bene. Però alla fine nel pubblico c’è solo il passaparola. Quando si è emozionati, non si sa perché, alla bellezza, a un attore, si ride, si piange, si commuove, e si dice. E così il film viene visto. Quindi anche per il pubblico la cosa più importante è avere un paio d’ ore di emozioni”.
La cosa più facile e difficile durante le riprese.
“Per me che non sono uno scoglio duro, che faccio poche cose, rare, quando proprio sono di voglia estrema, allora la cosa più difficile, la principale, parlo per me, è avere la troupe, 85-90 persone da gestire, coordinare, per fare poi quella scena, il film intero. Allora io penso sempre che in ogni singolo fotogramma del mio film c’è la testa di 84 persone. Ed io divento matto. Perciò poi ho fatto la “Divina Commedia”, da solo. Non è film, è film, è documentario, non si sa. E’ un’opera fatta senza attori, in grande libertà. Quando e brutta si straccia e si rifà. Nel cinema non si può. E’ tutto organizzato. Gli attori per me sono una lotta infinita. Nell’ultimo film ho avuto Omar Sharif come attore, e benedico e ringrazio Iddio per aver avuto questa enorme amicizia, questa fratellanza con quest’uomo grandioso, attore professionale estremo, di vecchia scuola. Ma normalmente invece gli attori, specialmente giovani, se non sono bravissimi, sono una fatica immane. E si può fare un film anche con le migliori intenzioni, e poi il film va a mare, con tutti i panni. Purtroppo dipendiamo dagli attori, che ormai sono televisivi, non sono più grandi attori teatrali, grandi star americane, straniere. Abbiamo questo grosso problema, che l’attore televisivo ha reso una popolarità esagerata, e allora il produttore lo vuole nel suo film, nel nostro film, ma magari non sa recitare”.
Qual è la situazione attuale del cinema italiano?
“So che il cinema italiano ha questo grande handicap, che non può andare all’estero, perché noi non possiamo andare in America o in Inghilterra, dove non ci doppiano. Quindi il cinema italiano è lo specchio dell’Italia, con le sue bellezze e con le sue miserie. Quindi si fa un film in Italia sperando che vada bene in Italia, che faccia quei soldi che ripaghino almeno le spese, oppure c’è un grande successo prendendo i premi in Italia. Ma non si può dire: <<Facciamo un film che magari sfonda in America>>. Un film americano si fa in America spendendo 100-200 milioni, però poi ne incassa 600 in giro per tutto il pianeta. Per noi non esiste tutto questo, come pure per il cinema francese. Comunque è chiaro che siamo ridotti a fare qualcosa di molto legato ai gusti italiani del momento. Oggi va un attore, il comico, la commedia. Prima no, andava il film d’ autore o il film politico. Ora va la commedia. E ci si regola. Quindi il cinema italiano non va né bene né male; è un cinema un po’ provinciale rispetto al pianeta. Infatti tutti noi guardiamo il cinema inglese e americano. Quando ci piace qualcosa di grande, parliamo sempre di cinema americano. Il cinema americano è quello che spende 100 milioni, e ne spende altrettanti nella distribuzione. Invece il cinema italiano ce la fa a fare il film, arrivando a quei due, tre milioni che servono, però non spende niente, proporzionalmente niente, in distribuzione. Fa qualche manifesto, qualche spot. Invece un bel film, se non ha una distribuzione potentissima, non cammina, non viene visto”.
Come capisce che un attore ha le caratteristiche giuste per emergere?
“Per emergere non lo so, e non mi interessa; anche lui, anche l’attore. Bisogna capire che c’è vera passione, vero talento su cui lavorare. Una specie di verità interiore per cui vuol fare l’attore. Perché se lo vuol fare in quanto gli piace e spera di andare in televisione, o gli piace stare in mezzo, o gli piace emergere, o gli piace farsi vedere, o si sente bello, o brutto, allora partiamo con il piede sbagliato. Da un provino che sembra una scemenza si capisce subito se lui vuol fare una piccola televisione perché è carino o bella, o se può tentare il grande teatro e il grande cinema. E’ difficile capire quel certo “non so che” che c’è nell’artista. Noi poi diciamo artista è regista, artista è pittore, artista è scultore. Ma tutti devono essere artisti per farlo bene e poi emergere. Anche l’attore e il cantante. Se un artista arriva subito poi la gente lo sente.
Che cosa direbbe ai giovani che vogliono entrare nel cinema?
“Non saprei proprio che dire. Anche un regista fatica per fare un film”.
Qual è stata la più grande soddisfazione della sua carriera?
“Carriera no; i film che ho fatto si. Quest’ultimo, “In viaggio con Dante”, per me è stata la più bella esperienza e forse la cosa che più mi ha realizzato, mi somiglia. Il primo film in India, dove ho incontrato i grandi attori indiani, con questo mondo infinito e meraviglioso che è l’India di Calcutta. L’altro film, dove ho conosciuto Omar Sharif, che viveva a Parigi, parlava cinque lingue, era campione di bridge e di scacchi, era laureato in matematica, parlava italiano meglio di me, cantava, recitava. Era di un’intelligenza superiore legata a una gentilezza infinita, che poi per me è la qualità massima dell’uomo. Se c’è la gentilezza, abbiamo dei rapporti anche umani e artistici. Se non c’è la gentilezza, può andarsene”.
Programmi per il futuro.
“Un film, finalmente, dopo aver fatto questo Dante. Intanto ancora un film con la “Società Dante Alighieri”, sull’ esilio di Dante. Una specie di fantasia sull’assurda leggenda dell’esilio di Dante, che chiameremo “Il trono vuoto”. Infatti non si sa bene dove sia stato. E poi un film mio, a Napoli finalmente, su un grande personaggio che ho amato, scritto, lavorato e studiato per quarant’anni, che è il principe di Sansevero, quello della Cappella Sansevero. Una fantasia su questo principe, come se arrivasse oggi a Napoli. Ho già scritto la sceneggiatura, e sto aspettando il via da parte dei produttori, ma penso che a mesi lo farò”.
Vincenzo Maio